Droni e gas: a rischio l’accordo per produrre in Ucraina gli UAV turchi Bayraktar TB2
Sembra destinato a saltare l’accordo tra Ankara e Kiev per produrre in uno stabilimento in Ucraina i droni armati Baykar Bayraktar TB2 impiegati finora in numeri consistenti contro le truppe russe.
Una fonte governativa a Kiev ha riferito il rifiuto dei turchi di costruire un impianto per la produzione di velivoli senza pilota (UAV) Bayraktar TB2 in Ucraina secondo quanto riportato dal web magazine russo Top War.
Dalla fine di agosto molte fonti ufficiali a Kiev avevano preannunciato la realizzazione di un’intesa con l’azienda turca che avrebbe permesso di produrre in Ucraina i TB2 e in luglio l’amministratore delegato di Baykar, Haluk Bayraktar, aveva dichiarato alla CNN che non avrebbe mai venduto i suoi prodotti alla Russia.
A differenza delle altre nazioni della NATO, la Turchia non ha mai donato armi a Kiev ma ne ha vendute in quantità inclusi gli UAV TB2 il cui acquisto è stato finanziato anche da collette pubbliche in Norvegia, Lituania e Polonia dai sostenitori della causa ucraina.
Dell’apertura dello stabilimento per avviare la produzione dei TB2 con componenti ucraini aveva parlato a inizio settembre anche il presidente Volodymyr Zelensky mentre Haluk Bayraktar aveva confermato la cooperazione strategica con Kiev e la disponibilità alla costruzione dell’impianto. Già a fine settembre però il tema era scomparso dai media ucraini e nessun politico o militare tornò sull’argomento.
A inizio ottobre sono giunte le conferme che Baykar stava riducendo in modo significativo le forniture di TB2 all’Ucraina mettendo quindi in forse anche la possibilità di costruire uno stabilimento produttivo.
Almeno tre le possibili motivazioni del flop dell’accordo turco-ucraino. Innanzitutto l’Ucraina ha perduto molti TB2 e alcune fonti militari ucraine hanno cominciato a far circolare la voce che il velivolo turco avrebbe prestazioni deludenti. I tecnici di Baykar attribuiscono invece l’elevato tasso di perdite alle modalità d’impiego adottate dalle forze di Kiev, che non contribuirebbero all’immagine del velivolo che i turchi stanno esportando con successo in molte nazioni.
Per i russi il drone turco non è certo un nemico nuovo: lo hanno affrontato in Siria e in Libia. La difesa aerea dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Khalifa Haftar, gestita da personale russo del Gruppo Wagner con sistemi antiaerei russi Pantsir S-1 forniti dagli Emirati Arabi Uniti, aveva abbattuto un gran numero di TB2 durante il conflitto combattuto intorno a Tripoli.
Del resto la guerra in Ucraina se da un lato ha sancito il ruolo preminente svolto da una vasta gamma di velivoli senza pilota, dall’altro ne ha mostrato la vulnerabilità e la necessità di disporne in gran numero.
Sul piano industriale i turchi avrebbero rifiutato di costruire un nuovo stabilimento nella regione della Transcarpazia/Leopoli, in Ucraina Occidentale, come pure di utilizzare le infrastrutture di MotorSich nella regione di Zaporozhye, a pochi chilometri dalla prima linea: in entrambi i casi gli investimenti necessari a realizzare gli impianti produttivi sarebbero esposti agli attacchi missilistici russi.
Pare infatti certo che lo stabilimento sarebbe finito nel mirino dei missili a lungo raggio russi che hanno già da tempo compromesso gravemente le capacità produttive dell’industria della Difesa ucraina.
Difficile poi negare che dietro la decisione turca di negare la produzione in Ucraina degli UAV vi siano valutazioni e pressioni politiche, specie dopo le voci circa le richieste russe ad Ankara e l’intervento dello stesso presidente Recep Tayyp Erdogan.
Nell’ultimo summit bilaterale del 14 ottobre Putin ed Erdogan hanno concordato diversi nuovi accordi economici inclusa la creazione di un hub del gas e una delle clausole dell’accordo sembrerebbe prevedere proprio la cessazione della fornitura di UAV turchi a Kiev.
Erdogan ha infatti accolto la proposta lanciata da Putin e, pur senza rivelare molti dettagli, ha menzionato la Tracia, regione occidentale turca al confine con Grecia e Bulgaria, come luogo più adatto per realizzare l’hub.
Nella stessa zona confluiscono tre gasdotti: Trans Anatolian Pipeline (TANAP), Trans Adriatic Pipeline (TAP) che arriva in Puglia attraversando Grecia e Albania trasportando gas dall’Azerbaigian verso l’Europa e il TurkStream,’ gasdotto di 930 chilometri inaugurato nel 2020 con una capacità di 31,5 miliardi di metri cubi all’anno che trasporta il gas russo in Turchia passando sotto il Mar Nero.
Metà dell’energia che arrivava in territorio turco tramite il TurkStream veniva smistata verso l’Ue fino al conflitto tra Mosca e Kiev. Il piano energetico di Erdogan e Putin prevedrebbe un potenziamento di questa infrastruttura già esistente, attraverso la costruzione di gasdotti paralleli come ha reso noto l’amministratore delegato della compagnia energetica russa Gazprom, Alexei Miller, secondo cui la documentazione del progetto è già pronta e potenzialmente 63 miliardi di metri cubi di gas all’anno potrebbero arrivare in Turchia tramite il Mar Nero.
Circa il doppio rispetto a prima dell’invasione dell’Ucraina. La Turchia punta quindi a diventare “un hub energetico per determinare i prezzi del gas”, come ha dichiarato il 14 ottobre il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, ammettendo però che resta ancora da risolvere la questione degli investimenti necessari a realizzare l’opera il cyi successo dipenderà essenzialmente dalla disponibilità europea a continuare ad acquistare gas russo.
Una condizione legata con ogni probabilità alla conclusione del conflitto in Ucraina (la Turchia è in prima linea per guidare eventuali negoziati) e alla impellente necessità europea di ricominciare a contare su flussi di gas certi e a prezzi convenienti: condizioni che per ora solo la Russia può garantire.
Meglio non dimenticare però che nel 2014 le pressioni statunitensi sulla Bulgaria e le sanzioni alla Russia impedirono la realizzazione del gasdotto SouthStream, che avrebbe portato il gas russo sulle coste bulgare del Mar Nero.
Foto: Anadolu, Baykar, Defense Express e TurkStream
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.