Gli Stati Uniti prima potenza petrolifera

dal Corriere del Ticino del 12 novembre 2012
Gli Stati Uniti diverranno nei prossimi anni i maggiori produttori mondiali di petrolio e gas, materie prime di cui saranno presto anche esportatori. La notizia, destinata a modificare radicalmente gli equilibri geopolitici internazionali e probabilmente la percezione stessa dell’America nel mondo, è stata ufficializzata dal recente rapporto World Energy Outlook redatto dall’Agenzia Internazionale dell’Energia. “Il Nord America è in prima linea di una trasformazione radicale della produzione di petrolio e gas che interesserà tutte le regioni del mondo“ ha dichiarato il direttore esecutivo dell’AIE, Maria van der Hoeven. L’analisi evidenzia il culmine di un mutamento che in vent’anni ha visto Washington passare dal top della classifica mondiale dei consumatori di energia e importatori di petrolio al primo posto tra i produttori, anticamera della piena autosufficienza energetica. I primi a vedersi sorpassare dagli americani saranno i russi che nel 2015 scenderanno al secondo posto tra i produttori mondiali di gas ma due anni dopo toccherà ai sauditi perdere il primato tra i produttori di greggio. “Attorno al 2017, gli Stati Uniti diventeranno il principale produttore di petrolio, superando l’Arabia Saudita – ha sottolineato Fatih Birol, economista dell’agenzia. Le previsioni indicano che nel 2030 gli Stati Uniti produrranno petrolio sufficiente a soddisfare il fabbisogno interno e ne diventeranno esportatori. A premiare gli sforzi statunitensi sul fronte energetico non contribuiscono solo l’aumento della produzione interna e le tecniche estrattive improntate alla massima efficienza ricavando il metano dalle argille (shale gas) e combinando la perforazione orizzontale con la fratturazione idraulica. Anche le politiche di contenimento dei consumi e l’adozione di misure concrete per il risparmio energetico e lo sviluppo di biocarburanti per veicoli e aerei contribuiscono a ridurre il fabbisogno e la dipendenza dalle importazioni.  I dati di oggi rivelano la tendenza definita dal rapporto: nei primi nove mesi di quest’anno  gli Stati Uniti hanno estratto circa 6,2 milioni di barili di greggio, 1,2 milioni in più del 2008. “Nel 2011, per la prima volta dal 1949, gli Stati Uniti sono divenuti esportatori netti di prodotti raffinati, mentre la dipendenza dalle importazioni di petrolio greggio ha conosciuto un’inattesa inversione, scendendo in cinque anni dal 60 al 42 per cento grazie all’aumento della produzione (20 per cento dal 2008) e al declino dei consumi dopo il picco toccato nel 2007” ha scritto su “Affari Internazionali”  Alberto Clò, professore ordinario di Economia industriale all’Università di Bologna e Direttore della Rivista Energia.  “L’aumento della produzione di shale gas, salita al 40% della complessiva offerta, ha reso il paese sostanzialmente indipendente, creando oltre un milione di posti di lavoro e generando un surplus d’offerta che ha fatto crollare i prezzi interni del metano a livelli 3-4 volte inferiori a quelli del 2008 e a quelli oggi praticati in Europa” ha aggiunto Clò.” La produzione americana di greggio è prevista aumentare entro il 2020 da 9,0 sino a quasi 16,0 milioni barili/giorno e quella di gas metano da 575 sino a 709 miliardi metri cubi nel 2030. Citigroup ne stima il complessivo impatto incrementale sulla ricchezza americana nell’ordine di 2-3 punti percentuali, con un drastico taglio dell’energy bill con l’estero, che conta per oltre la metà delle complessive importazioni; un ulteriore rafforzamento del dollaro; forte crescita dell’industria e dell’occupazione.”
Nello stesso periodo in cui gli Stati Uniti raggiungeranno la piena autosufficienza energetica, l’AIE prevede che l’Asia continui a sostenere la domanda globale di petrolio, destinata a crescere di 7 milioni di barili al giorno entro il 2020 e a raggiungere i 100 milioni di barili al giorno nel 2035 contro  gli 87 milioni di barili del 2011. I cambiamenti sul mercato dell’oro nero indicati dall’agenzia non riguardano solo gli Stati Uniti. L’Iraq ad esempio è destinato ad aumentare del 45 per cento la sua produzione entro il 2035 superando la Russia per livello di esportazioni. Difficile valutare l’impatto sui prezzi poiché i fattori che lo determinano possono variare rapidamente e non dipendere solo dal nuovo ruolo degli Stati Uniti,  ma secondo l’AIE il costo del greggio salirà dai 108 dollari al barile di oggi a circa 125 dollari  (in termini di valore costante al netto dell’inflazione, pari a 215 dollari in termini reali) anche se negli ultimi tempi gli sbalzi sono stati vertiginosi: da un dollaro e mezzo al barile del 1970 agli 8 dollari del 1974,  dai 147 dollari del 2008 ai 50 dell’anno successivo. Le stime sui prezzi dei prossimi 20 anni non tengono conto infatti delle variabili rappresentate da conflitti e tensioni nelle aree di maggior produzione di petrolio e gas che, dal Medio Oriente all’Asia Centrale all’Africa, sono in buona parte ben poco stabili o già destabilizzate. Sui prezzi dipenderà inoltre il mantenimento di accordi tra i produttori come quelli in vigore oggi nell’ambito dell’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio (OPEC) o quello stipulato tra Stati Uniti e Arabia Saudita per garantire stabilità nelle forniture e nei prezzi ai mercati internazionali. Il primato statunitense potrebbe cambiare radicalmente gli equilibri del mercato energetico portando i produttori a dirigere i flussi sempre di più verso l’Asia che con i suoi colossi economici e industriali avranno sempre più bisogno di energia. L’AIE valuta che Cina, India e Medio Oriente assorbiranno oltre il 60 per cento dell’aumento del fabbisogno di energia nei prossimi anni. Un processo del resto previsto da tempo e in parte già in atto mentre il ruolo degli Stati Uniti tra i produttori di gas e petrolio potrebbe rendere più improbabile il distacco delle quotazioni energetiche dal dollaro propugnato oggi da Iran e Cina. Al di là dell’impatto benefico sull’economia nazionale e sulla bilancia dei pagamenti, l’autonomia energetica potrebbe influire pesantemente sulle priorità strategiche di Washington e sulla percezione e difesa dei suoi interessi nazionali.

Un nuovo ruolo militare?
La tendenza al “leading from behind”, cioè a perseguire gli interessi statunitensi adottando un profilo più basso (Lucio Caracciolo l’ha definita “l’uso di risorse altrui per fini propri”), varata da Barack Obama potrebbe accentuarsi nei prossimi anni fino a un progressivo disimpegno da regioni del mondo fino a ieri di rilievo strategico sul piano energetico per gli interessi di Washington ma che domani saranno molto meno vitali o prioritarie. L’autosufficienza energetica potrebbe favorire l’affermarsi di politiche isolazioniste riducendo ulteriormente il ruolo tradizionale di “gendarmi del mondo” rivestito degli Stati Uniti. Anzi, in futuro Washington potrebbe valutare alcune crisi (conflitti, rivolte, estremismo, terrorismo) nelle aree petrolifere come opportunità per indebolire avversari e rivali rafforzando la propria supremazia globale aumentando al tempo stesso gli introiti derivati dall’export di gas e petrolio. Un’eventuale nuova crisi petrolifera come quella del 1973 non colpirebbe direttamente l’economia di un‘America divenuta prima produttrice mondiale di greggio ma avrebbe effetti devastanti per Europa e Asia.   Gli Stati Uniti perseguono da anni, con amministrazioni espresse sia dal partito democratico che da quello repubblicano, l’obiettivo della propria autosufficienza energetica. Le lezioni apprese dalla crisi petrolifera del 1973 (che costituì la rappresaglia del mondo arabo per l’aiuto militare che l’Occidente fornì a Israele nella Guerra dello Yom Kippur) e successivamente dai conflitti che hanno infiammato l’Iran, l’Iraq e in generale Golfo Persico e Medio Oriente hanno indotto Washington a perseguire un obiettivo strategico di tal rilievo da poter modificare la politica estera americana e i massicci impegni militari che il Pentagono sostiene nel mondo. Nell’era dell’autosufficienza energetica americana potrebbe risultare superfluo o ridondante il dispiegamento di decine di  migliaia di soldati con aerei, mezzi e navi schierati nel Golfo Persico. Il controllo delle aree di estrazione del greggio, di gasdotti e oleodotti e delle rotte delle petroliere attraverso Hormuz e altri stretti che hanno caratterizzato la strategia Occidentale degli ultimi decenni, potrebbe non rappresentare più una priorità per gli statunitensi il cui ritiro da queste aree lascerebbe un vuoto di potere con rischi di instabilità potenzialmente molto alti. Il disimpegno statunitense avviato negli ultimi anni dai teatri bellici in Iraq e Afghanistan potrebbe allargarsi a Paesi alleati che ospitano forze statunitensi in seguito al consolidamento dell’autonomia energetica, trasformando quella che oggi viene considerata un’iniziativa  di Barack Obama in una tendenza stabile degli Stati Uniti. Difficile ipotizzare che Washington abdichi al ruolo di grande potenza ma è possibile che il cosiddetto “Smart Power” rimpiazzi (come sta già accadendo) sempre più spesso l’uso muscolare della forza militare. Cambiando le priorità statunitensi anche gli interessi che negli ultimi 70 anni hanno legato le due sponde dell’Atlantico potrebbero venir meno. L’autonomia energetica rischia di ridurre al lumicino gli interessi comuni tra Europa e Stati Uniti influenzando anche la disponibilità di Washington di farsi garante della sicurezza degli europei anche mantenendo truppe nelle basi dei partners della Nato. Del resto l’Alleanza Atlantica risulta già oggi indebolita dalla distrazione degli Stati Uniti (sempre più concentrati anche sul piano militare nell’area Asia/Pacifico) e uscirà probabilmente con la credibilità compromessa dal ritiro senza vittoria dall’Afghanistan. Sul fronte interno l’opinione pubblica statunitense, già provata dai costi umani e finanziari dei conflitti in Iraq e Afghanistan, avrà ben pochi motivi per sostenere la partecipazione a conflitti internazionali in assenza di minacce alla rete di approvvigionamento energetico nazionale.  Sul piano tecnologico poi lo sviluppo di nuove armi velocissime in grado di colpire in ogni angolo del mondo in tempo brevissimi partendo dal territorio statunitense contribuirà a ridurre la necessità del Pentagono di dispiegare parte consistente delle sue forze armate oltremare anche se Washington difficilmente rinuncerà a mantenere la supremazia aerea e navale necessaria a garantirle la capacità di controllare i mari e quindi nel caso a minacciare le vie di rifornimento energetico degli avversari. Una sfida che coinvolge in particolare i cinesi, largamente dipendenti dalle importazioni per il loro fabbisogno energetico e di materie prime , i quali non a caso stanno costituendo a passi rapidi una forza navale capace di proteggere le rotte di approvvigionamento.

L’Europa rischia grosso
Germano Dottori è docente di Studi Strategici all’Università LUISS Guido Carli di Roma e ha curato l’ultimo Rapporto Nomos e Khaos di Nomisma sulle prospettive economico-strategiche internazionali. A lui abbiamo chiesto di immaginare il futuro assetto politico e strategico degli Stati Uniti.
Professore, a suo avviso come potrebbe cambiare la politica estera di Washington ?
Se gli Stati Uniti dovessero davvero pervenire all’autonomia energetica è presumibile che la loro azione internazionale si libererebbe di un vincolo, accelerando ulteriormente il riorientamento strategico delle loro priorità verso l’Estremo Oriente ed il Pacifico. Il Medio Oriente diventerebbe infatti ancora meno importante. Ma dei prezzi di petrolio e gas l’America non potrebbe comunque disinteressarsi, dal momento che quella variabile rimarrebbe comunque di decisiva importanza ai fini della crescita economica globale, da cui dipende anche la salute dell’economia americana. La sicurezza energetica non concerne solo la certezza degli approvvigionamenti, ma anche il loro costo.

L’autosufficienza energetica potrebbe alimentare nuove spinte isolazioniste o comunque un maggiore distacco dalle crisi internazionali?
Potrebbe farlo in effetti, ma soltanto in parte. Washington sarà soprattutto più flessibile nelle scelte di posizionamento risentendo di un condizionamento in meno. Lo Smart Power, che è il nuovo approccio agli affari mondiali adottato dall’Amministrazione Obama, potrebbe divenire un’opzione di carattere strutturale diminuendo l’incentivo ad esser presenti in forze ovunque e comunque.
Le crisi in Medio Oriente che determinano aumenti del costo del greggio si trasformeranno da minaccia in opportunità per gli USA ?
Questo è difficile da prevedere. I prezzi del greggio si formano sui mercati finanziari. In seguito a crisi e conflitti in Medio Oriente, aumenterebbe anche il prezzo dei prodotti energetici “fatti in casa”, con i prevedibili effetti depressivi sull’economia che si riscontrano in questi casi. Alti prezzi di petrolio e gas avvantaggerebbero invece la Russia, finanziandone il riarmo. I cinesi, invece, potrebbero esserne seriamente danneggiati, e l’Europa ancor di più.

 In base a queste aspettative è già possibile intravvedere oggi mutamenti nella politica estera e strategica statunitense ?
E’ suggestivo che quanto accade sembri realizzare alcuni obiettivi enunciati dal Rapporto Cheney pubblicato agli inizi dello scorso decennio. Se le previsioni dell’AIE risulteranno verificate si passerà dall’autonomia energetica attraverso la diversificazione dei fornitori all’indipendenza vera e propria. Neanche questa, tuttavia, implica di per sé il ritorno ad una postura isolazionista. Il Tea Party, dopotutto, è stato sconfitto il 6 novembre e l’America vuole restare a lungo la prima superpotenza del pianeta. Tale ambizione è compatibile con un ripiegamento statunitense dagli affari del mondo ma solo a condizione che questo sia solo simulato, come accade oggi attraverso il paradigma dello Smart Power.

 Possiamo immaginare gli USA nell’OPEC?
E perché no? Naturalmente uno sviluppo simile dipenderà da tante circostanze di natura eminentemente politica. L’economia entrerà in queste decisioni solo marginalmente tanto più che l’Opec ha ormai perso il potere sui prezzi del greggio che aveva negli anni settanta del secolo scorso. L’America inoltre è già da molto tempo un Paese produttore di petrolio al punto che il Western Texas Intermediate, un suo greggio pregiato, è tuttora un punto di riferimento del mercato. Tuttavia è chiaro che un passo del genere coronerebbe un percorso sul quale si è incamminato l’attuale Presidente americano. Obama non teme affatto il mondo arabo-musulmano e meno ancora il Venezuela. Per Israele invece si tratterebbe verosimilmente di una iattura che alimenterebbe ulteriormente i dubbi di Gerusalemme sulla lealtà di Washington all’alleanza con lo Stato ebraico. Tale incertezza ha già contribuito in modo rilevante a provocare il recente attacco a Gaza.

 Quali potranno essere i riflessi per l’Europa e per le relazioni euroamericane?
Venendo meno la necessità di assicurare la regolarità degli approvvigionamenti energetici, Mediterraneo, Medio Oriente ed Africa diventerebbero fatalmente teatri ancor meno importanti nel calcolo geopolitico americano. Stanno già accadendo fatti formidabili: scoppia la guerra contro la Libia e Obama annuncia dal Brasile la partecipazione americana al conflitto. Anche l’attacco israeliano su Gaza trova il Presidente Obama fuori sede, in Myanmar. Washington guarda infatti già altrove. In altri tempi non sarebbe successo. Se le previsioni dell’AIE trovassero conferma si accentuerebbe di certo la percezione di un’Europa relegata ai margini del sistema globale, ancorché sia prevedibile una crescita degli interventi degli europei nel loro “estero vicino”. Per contare ancora qualcosa, gli Stati europei dovranno considerare un riorientamento delle priorità strategiche della Nato speculare a quello attuato dagli Stati Uniti, accettando la prospettiva di seguirli in Asia, un po’ come è già accaduto in Afghanistan. A Bruxelles una riflessione sull’argomento è già stata aperta a prescindere dalle rivelazioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia.

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Foto : un oleodotto in Alaska (La Stampa)

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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