Se il “mondo libero” ha paura di una intervista
Con l’intervista fiume a Vladimir Putin il giornalista televisivo Tucker Carlson ha fatto arrabbiare tutti al di qua della “Cortina di Ferro”, cioè in quello che ai tempi della prima guerra fredda potevamo definire orgogliosamente il “mondo libero”.
Ha fatto arrabbiare i colleghi, anchorman e star dei grandi media mainstream statunitensi perché ha ottenuto un incontro e una intervista con Putin che ad altri è stata negata, Non pago, giusto per aumentare la dose di bile dei colleghi che non gli perdonano né di venire dalla “reazionaria” Fox News né di essere vicino a Donald Trump, Carlson ha ottenuto da Mosca anche di poter incontrare e intervistare Edward Snowden.
Un’intervista non meno importante di quella a Putin (anche se avrà forse minor impatto mediatico) tenuto conto che la fuga di Snowden, prima in Cina poi a Mosca, scatenò nel 2013 quel Datagate che raccontò al mondo intero di come gli Stati Uniti (e i britannici) spiano amici e alleati fino a controllare i cellulari di leader, capi di stato e di governo europei, i quali hanno peraltro reagito con limitate proteste formali, di fatto accettando come un fatto ineluttabile il loro status di sudditi ( status che, dieci anni dopo, appare oggi ancora più marcato).
Giova ricordare che i fatti svelati da Snowden riguardavano operazioni di spionaggio sviluppatesi negli anni dell’amministrazione Obama in cui Joe Biden ricopriva il ruolo di vice presidente. Per questo i contenuti dell’intervista a Snowden potrebbero forse avere un impatto sulle imminenti elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
Con l’intervista a Putin, Carlson ha fatto arrabbiare anche gli editori delle testate mainstream perché la mole di visualizzazioni che ha totalizzato (oltre 100 milioni nelle prime 24 ore, più del triplo nei giorni successivi) ha ridicolizzato in termini di audience anche le più affermate testate globali dimostrando che la censura posta dall’Occidente nei confronti dei media russi, delle fonti ufficiali russe e più in generale del confronto di idee e opinioni non solo non serve a nulla perché non crea consenso intorno alla causa ucraina e occidentale (il sostegno all’Ucraina non gode di grande popolarità sulle due sponde dell’Atlantico) ma è perfino contro producente perché evidenzia l’inadeguatezza delle classi dirigenti di Europa e USA, entrambe in profonda crisi di credibilità oltre che di fiducia e consensi presso le proprie opinioni pubbliche.
Carlson ha scatenato l’ira anche dei governi occidentali perché ha offerto un palco senza precedenti per numero di pubblico a Putin, che ha colto l’opportunità per raccontare, fin nei dettagli e negli aspetti storici più lontani, il punto di vista russo sulla crisi con l’Occidente e la guerra in Ucraina.
Una narrazione che a tratti ha colto impreparato Carlson, apparso in più occasioni spiazzato dai riferimenti di Putin su cui non si era documentato. L’obiettivo di Mosca era forse offrire l’impressione di un rapporto diretto e informale tra Putin e Carlson, come dimostra anche il tavolino quadrato che non rimarcava distanze né differenza di rango tra intervistatore e intervistato. Obiettivo probabilmente raggiunto se si valutano i commenti positivi raccolti presso l’opinione pubblica russa.
La vera “colpa” di Carlson è quindi politica, non giornalistica: aver mostrato il punto di vista di Mosca offrendo a Putin un’audience di centinaia di milioni di persone. Un crimine per un Occidente talmente sicuro e forte dei suoi principi da adottare un oscurantismo maccartista senza precedenti per definire fake news, disinformazione o narrazione putiniana le opinioni diverse o le “verità degli altri” e applicare la censura alle fonti non allineate. Non a caso si è parlato anche di possibili sanzioni della UE a Tucker Carlson, primo caso di un giornalista sanzionato per aver intervistato uno dei protagonisti del panorama mondiale.
Le ha evocate (trovando sostegni nel Parlamento Europeo) l’ex primo ministro belga ora europarlamentare Guy Verhofstadt che a Newsweek ha detto di aver chiesto un “travel ban” nei confronti di Carlson, definito un “portavoce” di Trump e di Putin: “Poiché Putin è un criminale di guerra e l’Ue sanziona tutti coloro che lo fiancheggiano, sembra logico che il servizio per l’azione esterna esamini anche il suo caso”.
A conferma di come questo dibattito sia più politico che giornalistico (pur investendo il mondo dell’informazione), immediata è stata la reazione dell’Ungheria dove Balasz Orban, consigliere politico del premier ungherese Viktor Orban, ha ammonito su X a “non provarci. Non permetteremo che accada”.
Le critiche mosse all’intervista di Carlson riguardano quindi il personaggio intervistato. Certo, c’è chi sostiene con convinzione che in guerra non si debba intervistare il nemico ma occorre osservare, sgombrando il campo da ogni patetica ipocrisia, che se fossimo davvero in guerra contro la Russia i nostri soldati combatterebbero a fianco degli ucraini per difendere Avdiivka o altre aree critiche del Donbass dove le truppe di Kiev sono in gravi difficoltà.
Se i russi fossero davvero i “nemici” sarebbe lecito attendersi che in Europa non vengano acquistati oltre 42 milioni di metri cubi di gas al giorno da Mosca, che peraltro giungono da noi nei gasdotti che attraversano l’Ucraina (e che nessuno bombarda), o che la Francia rinunci alle importazioni di gas liquido (GNL) dalla nemica Russia.
Dopo due anni di guerra continuiamo a comprare energia da quella Russia che, come da qualche tempo ci raccontano militari e politici, dopo essersi mangiata l’Ucraina sarebbe pronta a marciare su Varsavia, Berlino, Parigi e forse pure Lisbona?
La guerra (come prima il Covid) appare un buon pretesto per imporre alla nostra società censure, “cacce alle streghe”, limitazioni della libertà d’espressione e di dissenso e per vietare il confronto delle idee che rese grande e prospero il “mondo libero”, forse con la vana speranza che l’opinione pubblica non si renda conto della pochezza della classe dirigente che sta guidando l’Occidente verso il baratro.
Carlson del resto ha dimostrato di aver ben compreso le ragioni dell’astio nei suoi confronti: dopo aver ammesso di non essere particolarmente popolare tra i colleghi ha ribadito che la gran parte degli americani non ha capito questo conflitto se non superficialmente ed era giusto lasciare che Putin parlasse e spiegasse la sua visione del mondo perché gli americani si facessero un’idea compiuta.
In termini di informazione l’intervista a Putin è un evento rilevante, come vediamo anche sul piano politico, ma contiene alcuni aspetti critici. E’ troppo lunga, forse perché non è stata pianificata dettagliatamente nei tempi delle risposte o perché Putin non è tipo che si fa dettare i tempi. L’impressione è che Carlson abbia ceduto troppo spesso il timone all’intervistato, cosa che a ben guardare tale fenomeno è abbastanza consueta nelle interviste a leader di primo piano. L’intervista inoltre non contiene elementi nuovi per la soluzione del conflitto se non la disponibilità a uno scambio con gli USA di cittadini in carcere nelle rispettive nazioni. Limiti che in ogni caso non hanno inficiato il successo planetario dell’intervista.
Carlson può essere invidiato per lo scoop messo a segno e criticato per l’approccio amichevole nei confronti di Putin ma a patto che a giudicarlo per il reato di accondiscendenza non siano le stesse testate i cui giornalisti nella sala stampa di Palazzo Chigi applaudivano in piedi il presidente del Consiglio Mario Draghi all’inizio (neppure alla fine) delle sue conferenze stampa.
O coloro che non hanno mai obiettato di fronte alle palesi bugie raccontate sulla guerra dalla propaganda ucraina e da molti leader di nazioni UE e NATO oltre che dai vertici comunitari: per intenderci coloro che sostenevano che le nostre sanzioni avrebbero piegato l’economia russa in poche settimane, che i russi erano senza munizioni o combattevano con pale e badili o che rubavano le schede elettroniche dagli elettrodomestici per metterle nei loro armamenti.
Carlson è finito nel centro del mirino per aver diffuso in Occidente le parole di Putin e il punto di vista di Mosca. Definire fake news, disinformazione o “narrazione putiniana” temi e vicenda che prima del 24 febbraio 2022 erano dibattuti liberamente da tutti (quanti politici di ogni colore riconoscevano prima della guerra che l’allargamento della NATO a Est, le basi USA in Polonia e Romania “contro i missili balistici iraniani” e il colpo di mano del Maidan a Kiev costituivano minacce per Mosca) ha portato una pesante cappa di conformismo mediatico e culturale, forse ancor più forte nella suddita Europa che negli Stati Uniti.
Almeno negli USA è consentito esprimere critiche nei confronti del governo ucraino (e i media d’oltreoceano lo fanno ogni giorno anche in modo feroce) senza venire additati come agenti d’influenza di Mosca come accade invece in Italia e in buona parte d’ Europa. I fustigatori di Carlson sono in molti casi gli autori delle liste di proscrizione dei “putiniani” o le testate che hanno visto direttori e reporter decorati dal presidente Volodymyr Zelensky per i servigi resi all’Ucraina o che hanno preso parte alle interviste a Zelensky effettuate in totale adorazione dell’interlocutore ucraino.
Come abbiamo avuto modo di scrivere anche in passato, sul fronte della propaganda, militanza e autocensura dei media (tema di cui ci occuperemo ancora molto presto) ne abbiamo già viste di tutti i colori, inclusa la “caccia alle streghe putiniane”, per poter oggi fare la morale a Carlson e alla sua intervista in cui Putin ha ribadito la posizione e il punto di vista russo proprio come hanno fatto innumerevoli volte Zelensky con interviste, interventi e comunicati (persino con un comunicato letto al Festival di Sanremo!) e i diversi leader occidentali.
Vale infine la pena di evidenziare Inoltre come l’ostracismo verso l’ex anchor-man di Fox News sia il modo migliore per ingigantirne ruolo e fama spalancandogli forse le porte di un incarico politico se le prossime elezioni vedessero la vittoria di Donald Trump.
Infatti, mentre quel che resta del “mondo libero” cova risentimento e medita rappresaglie, Carlson è stato invitato come una star sul palco principale del World Governments Summit di Dubai dove si è tolto qualche sassolino dalle scarpe. “Sono americano, ho 54 anni e ho sempre pagato le tasse, eppure per tre anni il governo del mio Paese ha fatto di tutto, ricorrendo anche ai servizi segreti, per impedirmi di intervistare Vladimir Putin. Pensavo di esser nato libero e in Paese libero” ha detto Tucker Carlson raccontando come la CIA abbia fatto pressioni sul Cremlino per far cancellare l’appuntamento.
“Non mi sarei mai aspettato che il mio Paese e la CIA, che solitamente combatte i nemici, si sarebbero rigirati contro un cittadino americano. Questo mi ha scioccato ma ha anche rafforzato la mia determinazione a fare quest’intervista: non solo per capire quale fosse la visione del mondo di Putin ma perché mi erano state date motivazioni assurde per non farla”.
A Dubai Carlson si è vendicato degli sgarbi subiti definendo gli Stati Uniti “evidentemente guidati da uomo incompetente: è malato, le sue aspettative di vita sono al ribasso e questa non è un’osservazione politica. E’ la realtà delle cose anche se in America è giudicato sconveniente dirlo”.
Quanto al conflitto in Ucraina ha detto che “Putin vuole uscire da questa guerra e sarà sempre più aperto al negoziato se il conflitto durerà” ma “l’Occidente non ha mai riflettuto abbastanza su quali siano gli obiettivi concretamente raggiungibili di un negoziato: restituire la Crimea a Kiev come alcuni hanno ventilato significa non capire nulla dell’area e non avere il senso di cosa è fattibile”.
A parte il fatto che ferisce anche solo essere sfiorati dal dubbio che in una monarchia ereditaria del Golfo Persico ci sia oggi maggiore libertà di dibattito e confronto di idee che in Europa, le parole di Carlson a Dubai sembrano voler tirare la volata a Trump, che ha più volte affermato che se tornerà alla Casa Bianca concluderà il conflitto in Ucraina in 24 ore.
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Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.