Terrorismo: come cambiano i rischi per le imprese all’estero

 

intervista di Francesco Bussoletti (Agenzia Il Velino)

Cambia lo scenario di rischio per le imprese all’estero, comprese quelle italiane, dopo l’11 settembre e soprattutto a seguito del consolidamento dell’Isis (stato islamico dell’Iraq e della Grande Siria), o meglio stato islamico (IS), come “stato alternativo”. “Per la prima volta si è assistito al fatto che il controllo del territorio non è più di uno stato sovrano, ma è passato nelle mani di uno ‘stato alternativo’ – ha spiegato al Velino il generale Luciano Piacentini, consigliere della fondazione Icsa (Intelligence culture & strategic analysis) e già comandante del Nono reggimento incursori Col Moschin, nonché dirigente dei servizi di sicurezza italiani -.

Dopo l’11 settembre il terrorismo è diventato per lo più di matrice jihadista e le aziende straniere sono diventate un obiettivo da eliminare o neutralizzare. Da quelle che operano nel settore energetico a quelle delle costruzioni”.

La conferma viene dal rapporto su “L’avanzata dell’Isis nel teatro mediorientale, ripercussioni sull’Europa e sull’Italia”, che la Fondazione ha recentemente pubblicato. Nel documento è riportato l’indice sintetico di rischio per le imprese italiane nelle aree di crisi, da cui si evince che i paesi più pericolosi sono diventati quelli dove è presente una forte componente fondamentalista.

In testa c’è la Siria, seguita da Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Pakistan, Repubblica centrafricana, Iraq, Yemem, Egitto e Sudan. Per eventi di security si intendono attacchi terroristici, episodi di criminalità, eventi socio-politici, operazioni di polizia di particolare rilievo, rinvenimento armi/munizioni, atti di pirateria, sequestri di persona e sabotaggi.

L’espansione dello stato islamico ne è, inoltre, la controprova. “L’ IS dopo la sua formazione ha acquisito il controllo di un territorio che non è più né della Siria né dell’Iraq. È diventato il loro – ha sottolineato l’alto ufficiale -. Il che significa che le aziende che si trovano sul posto o si trovano subordinate a loro o sono costrette ad attuare un piano d’evacuazione lasciando tutto in loco. Il controllo del territorio, peraltro, non è solo militare ma è complessivo.

Lo Stato islamico che non è de jure, ma di fatto e in sostanza si comporta come un governo sovrano: con un suo apparato dirigenziale di ministri e con gabelle per la popolazione, tanto che si pagano le tasse. Commercia in petrolio e gestisce tutte le risorse energetiche, come l’acqua per esempio – ha sottolineato il consigliere dell’Icsa -. Questo è un tema di grande attualità. L’acqua è uno di quegli elementi che potrebbero essere l’innesco per conflitti futuri vista la carenza nell’area.

Quando l’IS ha occupato la diga di Mosul (nella foto a sinistra), gli Stati Uniti unitamente ai curdi sono intervenuti immediatamente per evitare che la formazione mantenesse la disponibilità di questo bene fondamentale. Chi controlla l’acqua, infatti, sostanzialmente controlla la popolazione”.

Cosa possono fare i governi per tutelare le nostre aziende all’estero e cosa loro stesse per ridurre l’esposizione ai rischi? “Sarebbe utile che i governi stilassero una lista di imprese di ‘interesse vitale nazionale’ con delle priorità e procedure di protezione stabilite in base a criteri precisi – ha suggerito Piacentini -. Le nostre imprese all’estero rappresentano un bene prezioso per il nostro paese non solo per fatturato e posti di lavoro, ma anche per le informazioni di cui dispongono, che possono essere messe a sistema con quelle dell’intelligence per creare una ‘situazione paese’ più dettagliata e precisa possibile.

Questo è anche a loro vantaggio, perché permette alle istituzioni di poterle proteggere meglio. Loro stesse, comunque, devono autotutelarsi, in quanto non è sufficiente la sicurezza fornita dal paese stesso dove operano. L’ideale sarebbe cominciare a sviluppare il concetto americano dell’uso di contractor nazionali, anch’essi parte del sistema dell‘interesse vitale nazionale’ insieme a imprese e servizi di sicurezza.

Questi, anche se su scala limitata, operano già a tutela dei nostri connazionali in alcuni ambiti, come la protezione delle navi mercatili, insieme alla componente militare”. Molti paesi li impiegano da tempo non solo per la protezione dei propri interessi all’estero, ma anche per la tutela degli stessi organismi istituzionali con buoni risultati.

Chi già fa uso dei contractor sono soprattutto gli anglosassoni. Dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, ad altri come Israele e la Russia. “Peraltro per l’Italia potrebbero costituire, nell’ottica di un sistema sinergico tra le componenti dello stato all’estero, una efficace interfaccia tra le aziende e l’intelligence”, ha ricordato il generale. Nel frattempo, aspettando che prenda forma un sistema nazionale per la protezione degli interessi vitali del Paese, le aziende possono adottare alcune contromisure per mitigare i rischi legati alla sicurezza.

“Innanzitutto mantenere, e qualora necessario incrementare, un dialogo costante e continuo con la nostra rete diplomatica all’estero, il punto di riferimento per tutti i connazionali fuori dall’Italia. Prima di intraprendere una qualsiasi attività in zone ‘calde’ è necessario effettuare una valutazione del rischio di dove si va e avere consapevolezza delle procedure da mettere in atto per far fronte a queste minacce – ha concluso Piacentini -.

Questo acquisendo dalla componente nazionale dell’intelligence tutte quelle informazioni che sono utili per prevenire e contrastare pericoli di varia natura. Inoltre, conoscere il territorio e fare in modo di acquisire il consenso della popolazione in loco.

È una delle migliori forme di protezione, in quanto difficilmente si rinuncerà a vantaggi concreti per mere promesse di futuri compensi, tipiche degli jihadisti. Infine, formare preventivamente il personale che andrà a operare in aree a rischio e avere un monitoraggio continuo dei lavoratori locali, interpreti in primis”.

Foto: Il Velino, Reuters, Nbc, Stato Islamico

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