Non Andiamo Troppo Oltre

 

Il presidente pro tempore dell’Ucraina (il mandato di Zelensky è scaduto il 20 maggio ma le elezioni “non si possono tenere a causa della guerra”, che apparentemente non blocca attività più banali) si è distinto sin dall’inizio per aver rivolto alla comunità internazionale, nel pur comprensibile arrabattarsi per trovare il modo di sopravvivere all’aggressione, una serie di richieste di aiuto irresponsabili.

Coinvolgere l’Europa, gli USA e la NATO in uno scontro diretto con la Russia – conseguenza diretta dell’accettare alcune delle sollecitazioni di Zelensky – significherebbe infatti dare il via alla terza guerra mondiale, un prezzo che nessun paese occidentale, con tutto il rispetto per l’Ucraina, è pronto né può essere sollecitato a pagare.

Già il 5 marzo 2022 Zelensky, a un paio di settimane dall’invasione, chiese in un messaggio al Congresso americano – fra le varie misure idonee ad “aumentare il prezzo che la Russia deve pagare per la sua aggressione” – la creazione di una no fly zone sull’Ucraina, così da impedire all’aviazione russa di attaccare obiettivi militari e infrastrutture all’interno del paese.

Una richiesta rinnovata il 16 marzo con toni scelti per ammorbidire gli interlocutori (“La Russia ha trasformato il cielo dell’Ucraina in una sorgente di morte per migliaia di persone. È troppo chiedere la creazione di una no fly zone?”), ma rispedita ancora una volta al mittente dagli USA e dalla NATO, non tanto perché spaventati dalle minacce loro indirizzate da Mosca ma in quanto consapevoli che l’imposizione di una tale misura avrebbe comportato un conflitto generalizzato in Europa.

Un primo “no grazie”, quindi, motivato da evidenti ragioni ma non accompagnato (almeno ufficialmente) da una lavata di capo per l’irragionevolezza della richiesta.

Dopo questo debutto Zelensky, con un’insistenza ossessiva ed aggressiva al limite dell’arroganza, ha continuato ad avanzare agli USA, all’Unione Europea, alla NATO e a qualsiasi paese disposto (o anche no) ad ascoltarlo richieste di armamenti via via più sofisticati, dai missili anticarro a quelli antiaerei, dai carri armati al munizionamento di precisione, dai missili superficie-superficie e aria-superficie a lunga gittata ai caccia F-16.

Sotto l’incessante pressione di Kiev i paesi occidentali sono passati da un atteggiamento iniziale improntato alla prudenza (che ha indotto molti governi a fornire a Kiev solo materiale non letale, dai giubbetti antiproiettile agli ospedali da campo) a una politica sempre più permissiva, restringendo la gamma dei sistemi “proibiti” ed allargando in parallelo i cordoni della borsa. Ha così preso il via un flusso di equipaggiamenti che ha progressivamente incluso obici semoventi, munizionamento a lunga portata a guida GPS, lanciarazzi campali, carri armati di crescente sofisticazione, missili antiaerei di tutte le specie e portate (dagli Stinger ai Patriot), bombe plananti guidate, missili da crociera Scalp e Storm Shadow e chi più ne ha più ne metta.

Mentre l’Occidente accantonava le perplessità iniziali e rimuoveva man mano le barriere dei precedenti divieti l’ansia di Zelensky per nuove forniture non si è placata ma ha continuato a crescere, soprattutto dopo aver constatato che l’arrivo dei tanto desiderati strumenti offensivi non era sufficiente a rovesciare le sorti del conflitto sulle quali pesano, oltre alla quantità e all’efficacia degli armamenti, ben altri fattori.

Stati Uniti in prima fila, seguiti nell’ordine da Germania, Gran Bretagna, Danimarca, Olanda, Polonia, Svezia, Francia e Canada, solo per citare i paesi che nei primi due anni di guerra hanno fornito a Kiev equipaggiamenti ed aiuti militari per un valore superiore ai 2 miliardi di dollari, hanno sostenuto il paese aggredito con un flusso di risorse materiali e finanziarie senza precedenti, per un valore complessivo che supera ad oggi i 120 miliardi in aiuti militari diretti e i 380 se si includono quelli economici e finanziari.

Un esborso enorme, considerato oltretutto che va a beneficio di un paese che, per quanto vittima di un’aggressione, non è un nostro alleato, non fa parte della NATO (per quanto ansioso di entrarci) né dell’Unione Europea e nei confronti del quale non abbiamo di conseguenza alcun obbligo di assistenza.

Indagare sul perché questo avviene richiederebbe un’analisi complessa, che non trova spazio in poche righe. Al di là dell’obbligo morale e del timore, più o meno giustificato, che la minaccia russa, se non fermata per tempo, possa estendersi ad altri paesi dell’Europa, pesano sicuramente sulla vicenda altre motivazioni meno nobili e disinteressate, incluso l’interesse degli Stati Uniti a contenere, indebolire e ridimensionare politicamente e militarmente uno dei principali antagonisti strategici – la Russia –, senza che Washington abbia bisogno di mettere un solo “stivale sul terreno” (a parte qualche elemento delle forze speciali e qualche agente della CIA).

Nonostante la disponibilità, o meglio la condiscendenza, mostrata nei suoi confronti dagli Stati Uniti e dalla coalizione internazionale che questi sono riusciti ad aggregare, Zelensky insiste nell’avanzare ulteriori richieste, senza curarsi del fatto che queste possano comportare per i suoi sostenitori il rischio di un coinvolgimento nel conflitto o – ipotesi altrettanto preoccupante – di un’escalation dello stesso oltre la soglia del nucleare.

Dopo l’impressionante efficacia di cui i sistemi di difesa aerea occidentali hanno dato prova nell’intercettare e distruggere la stragrande maggioranza dei missili e dei droni lanciati nella notte fra il 13 e il 14 aprile dall’Iran contro Israele, Zelensky ha chiesto che la NATO si impegni in ugual misura per intercettare le armi lanciate contro l’Ucraina dalla Russia, anche lanciando gli intercettori dal territorio dei paesi membri.

Così facendo Zelensky ha forse escogitato il modo per mettere in funzione i sistemi “Aegis Ashore” installati dagli USA in Polonia e in Romania, senza tener conto tuttavia di che cosa questo comporterebbe in termini di coinvolgimento della NATO nel conflitto.

Ancora una volta l’Alleanza si è ben guardata dall’intervenire, ma di nuovo senza rispedire formalmente al mittente una richiesta ingiustificabile.

Al contrario, è ormai evidente che all’interno della NATO sta guadagnando spazio un fronte di paesi per i quali un confronto armato con la Russia non rappresenta più un’ipotesi che un’Alleanza difensiva dovrebbe fare di tutto per prevenire ed evitare, ma una prospettiva tollerabile e persino auspicabile. In questo senso si distinguono soprattutto le tre repubbliche baltiche. Anziché starsene quiete e ringraziare la sorte per essere riuscite ad entrare nel 2004 nella NATO, trovando uno scudo contro possibili aggressioni da est, Lettonia, Estonia e Lituania si agitano sia a sostegno dell’Ucraina, anche ipotizzando l’invio di propri soldati, sia per primeggiare fra gli alleati, vantandosi di aver superato la soglia del 2 % del PIL investito nella difesa.

Una circostanza che, a loro giudizio, rappresenta addirittura un titolo per aspirare al Segretariato Generale della NATO, quando in realtà la loro spesa resta in termini assoluti un contributo irrisorio, viso che per difendersi hanno bisogno che a pattugliare il Baltico provvedano le marine alleate, che sul loro territorio si schierino le truppe alleate e che a proteggere il loro spazio aereo pensino le missioni di air policing alleate. I tre paesi rappresentano per la NATO un onere, molto più che un esempio da seguire: altro che puntare alla poltrona del Segretario Generale!

Le tre repubbliche baltiche non sono comunque sole: ad agitare inutilmente le acque all’interno della NATO, con esternazioni più o meno fuori luogo, contribuiscono a turno Macron, la Gran Bretagna, l’Olanda e la Polonia, e non è escluso che il contagio si allarghi, visto che anche il Segreatrio Generale della NATO, Jens Stoltenberg ha preso il vizio di parlare sopra le righe.

Forse nel timore che il fuoco si spenga, Zelensky ne ha pensate nel frattempo di nuove. La prima – che dopotutto tanto nuova non è – riguarda la richiesta di ricevere dall’Occidente armi di maggiore portata, con le quali colpire non solo obiettivi nemici nelle regioni occupate del paese ma anche oltre confine, ad esempio dove Mosca concentra uomini e mezzi in vista di nuove azioni offensive, come quelle avviate di recente nella zona di Karkiv.

Non fornire le armi o fornirle senza dare questa autorizzazione, insiste Zelensky, equivale a costringere l’Ucraina a combattere con le man legate dietro la schiena, visto che le viene impedito di reagire tempestivamente ed efficacemente alle iniziative avversarie. In linea di principio il ragionamento fila, ma quali sono i rischi connessi all’eventuale uso di armamenti occidentali per portare la guerra all’interno della Russia lo sa bene il cancelliere Scholz, che sino ad oggi ha resistito a tutte le pressioni – provenienti sia da est che da ovest – perché la Germania ceda a Kiev i propri missili “Taurus”.

Non più tardi del 20 maggio, in un’intervista alla Reuters, il presidente ucraino ha affermato (con la consueta sfrontatezza e con evidente riferimento al tempo che il Congresso americano ha impiegato per dare il via ai 60 miliardi dell’ultimo pacchetto di aiuti) che i partner occidentali hanno esitato “troppo a lungo” prima di prendere decisioni di vitale importanza sulla prosecuzione degli aiuti militari, e che tutto quello che sarebbe indispensabile avere subito “arriva invece a Kiev con un anno di ritardo”.

Un’altra mossa di Zelensky, ben più preoccupante, riguarda l’attacco sferrato il 23 maggio contro il sito radar di Armavir, a nord della Georgia e a oltre 300 chilometri dall’estremità orientale della Crimea, dove la Russia ha installato e reso gradualmente operativo dal 2006 un radar Voronezh-DM appartenente alla catena di allarme precoce contro gli attacchi missilistici.

L’operazione, portata a termine con l’impiego di droni, dimostra per l’ennesima volta, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’Ucraina non ha bisogno dei sistemi forniti dall’Occidente per attaccare in profondità e con pesanti effetti in territorio russo, ma rappresenta anche un’ulteriore dimostrazione della superficialità (oppure, a scelta, della raffinata malizia) con cui Kiev sceglie gli obiettivi da colpire.

Che si tratti di superficialità è l’ipotesi più benevola, visto che il radar di Armavir, in quanto parte della rete di sorveglianza BMEW (Ballistic Missile Early Warning), rappresenta un assetto strategico, la cui perdita priva la Russia della capacità di scoprire un attacco lanciato contro il suo territorio con missili balistici provenienti da un settore che copre tutto il Mediterraneo, il Medio Oriente e parte del Mare Arabico, dove sono in grado di operare gli SSBN statunitensi.

È possibile che i russi si servissero del radar di Armovir anche per scoprire il lancio da parte dell’Ucraina di missili balistici tattici o da crociera contro obiettivi in territorio ucraino o in Crimea e che questo abbia pesato sulla scelta del bersaglio, ma l’irresponsabilità sta nel fatto che, in base alla dottrina pubblicata dal Governo russo nel 2020 circa l’impiego delle armi atomiche, questo rientra proprio fra i casi suscettibili di far scattare una rappresaglia nucleare, prevista a fronte di “qualsiasi attacco avversario contro infrastrutture governative o militari della Federazione Russa, la cui distruzione comprometta la capacità di risposta delle forze nucleari”: e il radar di Armavir è una di tali infrastrutture.

Zelensky e il suo Stato Maggiore non si sono mai curati di leggere il documento del Cremlino? Oppure la loro è stata una scelta deliberata, e in tal caso suggerita da quali calcoli e motivi? Dimostrare che la minaccia russa di far ricorso alle armi nucleari è un bluff, e che quindi l’Occidente non ha ragione di preoccuparsi di un’eventuale escalation? É una tesi che Kiev sostiene da tempo, ma ricorrere a un rischio calcolato di questa portata per dimostrare di avere ragione è un comportamento insensato.

La stessa smania di cui soffre Kiev pare aver contagiato anche il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg, che in attesa di lasciare la poltrona (la sua ennesima proroga scade ad ottobre) non perde occasione per lanciare un po’ di benzina sul fuoco. Nel corso di un’intervista all’Economist il 25 maggio Stoltenberg ha invitato i paesi alleati che forniscono armi all’Ucraina ad abolire il divieto di farne uso per colpire obiettivi militari all’interno del territorio russo.

Una posizione oltranzista, che riprende quella della Gran Bretagna e dei paesi baltici e sembra diretta principalmente contro il presidente Biden, il quale fino ad oggi ha respinto un’eventualità del genere, confermando la volontà di mantenere il controllo sull’uso che Kiev intende fare delle armi fornite dagli Stati Uniti.

Ma che soprattutto non corrisponde alla posizione ufficiale della NATO, di cui il Segretario Generale – come si può leggere nel relativo sito – è solo il “principale portavoce e ha il compito di rappresentare in pubblico l’Alleanza per conto dei paesi membri, esprimendo la loro posizione comune sulle questioni politiche”.

L’auspicio espresso nell’intervista non rappresenta affatto una “posizione comune” e nel rilasciarla Stoltenberg ha valicato i limiti della propria competenza, diventando non il portavoce dell’Alleanza ma di sè stesso. Va bene la NATO, caro Stoltenberg: ma Non Andiamo Troppo Oltre.

Foto: NATO, Commissione UE, Presidenza Ucraina e Ministero Difesa Ucraino

 

Ruggero StangliniVedi tutti gli articoli

Ingegnere, ha lavorato nell'industria della difesa prima di fare del giornalismo la sua principale attività. Nel 1982 ha contribuito a fondare la rivista mensile Panorama Difesa, che ha diretto sino al 2000, e successivamente Tecnologia & Difesa, che ha diretto fino al 2006. È autore e coautore di numerosi libri e pubblicazioni sulle marine, le operazioni e le tecnologie militari.

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