L’Italia riprende le relazioni con la Siria che fatica a trovare la stabilità    

 

Roma guida un gruppo di nazioni dell’Europa centrale e mediterranea verso la riapertura delle relazioni con la Siria dopo la guerra civile che vide Occidente e parte del mondo arabo cessare di riconoscere il governo di Bashar Assad, uscito vincitore dal conflitto contro l’insurrezione sostenuta da potenze occidentali, Turchia e da alcuni stati arabi. Il governo siriano controlla oggi circa il 70 per cento del territorio nazionale e deve fare i conti con difficili condizioni economiche in una nazione in gran parte devastata dalla lunga guerra (civile ma alimentata da molte nazioni e interessi esterni alla nazione araba) e con diversi milioni di profughi ancora all’estero.

“Non so quando si insedierà il nuovo ambasciatore per la Siria, non so la data, ma in tempi rapidi” ha detto il 26 luglio il ministro degli Esteri e vicepremier, Antonio Tajani, a margine di un convegno alla Camera rispondendo alla domanda se la decisione di nominare un ambasciatore in Siria vada intesa come la volontà del governo di ristabilire rapporti col governo siriano.

Tajani ha parlato di una scelta “in linea con quello che abbiamo detto e con la lettera che abbiamo inviato a Borrell, noi e altri sette stati membri dell’Unione, per accendere i riflettori. Non abbiamo mai chiuso l’ambasciata, c’era un incaricato d’affari a Beirut. Adesso accendiamo i riflettori con un ambasciatore. Hanno firmato la nostra lettera Austria, Grecia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca, Cipro e Croazia. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha incaricato i propri servizi di dare il via a un apposito studio per le possibili soluzioni”.

Il ministro ha sottolineato l’importanza “che ci sia stato anche un giudizio positivo da parte delle opposizioni su questa nostra scelta. Con nomina abbiamo voluto dare un segnale, anche ai nostri amici europei, di una crescita dell’attenzione”. Secondo Tajani “bisogna capire cosa fare per non lasciare a russi e altri il monopolio di una situazione”.

Tajani ha aggiunto che “se parliamo di Medio Oriente non possiamo non parlare di Siria che dà tempo sembra essere stata relegata ai margini dell’agenda internazionale: questo sarebbe un errore strategico. In Siria ha origine la più grande crisi di profughi del mondo, avvertiamo inevitabilmente questi effetti ben oltre il Medio Oriente, anche in Italia e nel resto d’Europa: dobbiamo quindi aggiornare l’approccio dell’Unione Europea adattarlo all’evolversi della situazione ed è per questo motivo che ho richiesto una maggiore attenzione dell’Unione nei confronti della Siria”.

 “Dopo 13 anni – ha sostenuto Tajani  -“dobbiamo aggiornare l’approccio dell’Ue e adattarlo all’evolversi della situazione. Il nostro obiettivo è una politica più pragmatica e proattiva per aumentare l’efficacia della nostra assistenza umanitaria e per creare le condizioni per il ritorno sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati siriani (…) in osservanza degli standard dell’Unhcr. Nessun compromesso su democrazia, inclusione, libertà fondamentali e diritti umani; nessuno intende dimenticare le gravissime responsabilità del regime di Assad verso il suo popolo né la sua vicinanza a Paesi a noi ostili, ma proprio per questo dobbiamo rilanciare un dialogo coi governanti di Damasco e con l’opposizione sostenendo gli sforzi dell’Inviato speciale delle Nazioni Unite, Geir O. Pedersen”.

 

La freddezza della UE

L’iniziativa guidata dal governo italiano non ha incassato per ora il plauso dell’Unione Europea che ne ha parlato senza approfondire la questione il 22 luglio al Consiglio Esteri a Bruxelles.

Borrell, durante la conferenza stampa al termine del Consiglio ha affermato che “abbiamo ascoltato questi Stati membri, rappresentati da Italia e Austria. E il lavoro continuerà, essendo pragmatici ma non ingenui: sappiamo dove sta il regime siriano: è molto vicino all’Iran e alla Russia ma ci lavoreremo. Siamo sempre pronti a cercare delle soluzioni che possano essere a beneficio del popolo siriano”.

Durante i lavori del Consiglio il ministro Tajani aveva sottolineato che lo stato arabo “non può essere lasciato nelle mani e dell’Iran e della Russia, ma non può neanche essere abbandonato a sé stesso. Una gran parte di profughi abbandonano o hanno abbandonato quel paese dopo la guerra con l’Isis. Quindi, ripeto: il tema è capire qual è e quale può essere la strategia dell’Unione europea sulla Siria”.

Di fatto però non sembra esistere una strategia europea nei confronti della Siria di Assad e l’iniziativa italiana giunge in un momento di possibili svolte nei difficili equilibri che hanno visto concludersi il conflitto civile con il successo delle forze governative e l’intesa strategica tra Russia e Turchia che hanno lasciato però numerose incognite.

I turchi continuano a controllare grazie a milizie siriane alleate di Ankara parte della regione settentrionale di Idlib che ospita anche molti miliziani jihadisti dei gruppi che aderirono ai gruppi legati allo Stato Islamico e ad al-Qaeda.

Truppe turche occupano inoltre per una profondità di circa 30 chilometri quasi tutta la linea di confine tra le due nazioni con l’obiettivo di tenere le milizie curde (Forze di Protezione del Rojava – YPG) lontane dal territorio turco mentre circa un migliaio di militari statunitensi con le retrovie in Iraq e Giordania occupano del tutto illegalmente in base al diritto internazionale una porzione di territorio al confine con la Giordania (al-Tanf) e tre aree della regione orientale in prossimità di pozzi petroliferi.

Con il pretesto di proteggerli dallo Stato Islamico, Washington vuole impedire che i pozzi tornino nelle mani del governo di Damasco che con i proventi dell’export petrolifero potrebbe finanziare la ricostruzione post bellica.

Difficile quindi attendersi che l’iniziativa diplomatica annunciata da Tajani venga apprezzata dall’attuale amministrazione statunitense o da Gran Bretagna e Francia (le tre nazioni hanno negli anni scorsi bombardato la Siria), oggi più che mai ostili al regime di Assad anche per il fattivo supporto offerto alla presenza militare russa nel Mediterraneo con la base navale di Tartus e quella aerea di Hmeimim (Latakya).

Il 29 luglio il ministero degli Esteri tedesco si è detto contrario alla normalizzazione dei rapporti con la Siria poiché i leader di Damasco ”continuano a commettere ogni giorno crimini contro i diritti umani del proprio popolo” ha riferito un portavoce precisando che ”finché continuano i crimini contro il popolo siriano tra cui ‘violazioni gravi e arbitrarie dei diritti umani oltre ai combattimenti, non si può realmente aspirare a una normalizzazione delle relazioni con il regime siriano”.

 

Il timore di nuove ondate migratorie

Del resto oggi è difficile aspettarsi dalla Germania (come da molte nazioni d’Europa) posizioni indipendenti o smarcate da quelle statunitensi, specie su temi di politica estera e difesa ma in ogni caso Roma sembra comunque voler riaprire i rapporti diplomatici con Damasco indipendentemente dalle valutazioni della UE o dei singoli partner. Un segnale importante che indica la volontà di Roma di tornare a giocare un ruolo autonomo nel Mediterraneo guardando prioritariamente e pragmaticamente agli interessi nazionali, sottraendosi per quanto possibile alle logiche settarie che sembrano dominare la UE.

Del resto il regime che Bashar Assad ha ereditato dal padre Hafez (grande alleato dell’Unione Sovietica) era tale anche molto prima che iniziasse l’insurrezione e infatti prima del 2011 l’Italia (come altre nazioni europee) ha sempre avuto stretti rapporti politici, commerciali e anche militari con Damasco (tra l’altro fornimmo sistemi di puntamento per i carri armati) e l’11 marzo 2010 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì al presidente siriano Bashar al-Assad l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone al merito della Repubblica Italiana: onorificenza poi ritirata nel 2012.

Se si osserva la composizione del gruppo di nazioni che sostiene in Europa l’iniziativa italiana non sfugge che si tratta di quelle che subirebbero direttamente l’impatto di nuovi flussi di migranti illegali siriani lungo la rotta terrestre dei Balcani e quelle marittime del Mediterraneo Orientale e Centrale.

Anche per questo l’iniziativa dell’Italia e del gruppo di partner UE, appare tempestiva e appropriata anche perché si inserisce in una fase in cui Bashar Al Assad è tornato pochi giorni or sono da una visita a Mosca dove ha incassato la determinazione di Vladimir Putin a mediare un incontro tra lo stesso Bashar Assad e il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, i cui ottimi rapporti sono stati incrinati dal sostegno turco all’insurrezione attraverso la quale Ankara puntava ad estendere il suo controllo sui ampi territori siriani.

 

La mediazione russa

Putin preme per un riavvicinamento tra Siria e Turchia puntando sulla convergenza di interessi diversi tra Assad ed Erdogan. Il primo ha bisogno di chiudere il conflitto anche nel nord e ristabilire il controllo su tutto il territorio nazionale, il secondo deve fare fronte alle crescenti proteste della popolazione turca per la presenza ormai da molti anni di 3,5 milioni di profughi di guerra siriani e fare i conti con i costi di una prolungata occupazione militare dei territori settentrionali siriani.

Questioni che generano un malcontento che potrebbe penalizzare Erdogan e il suo governo anche sul piano elettorale.

Mosca aveva già ospitato nel 2022 il primo incontro tra ministri della Difesa e degli Esteri turchi e siriani e secondo indiscrezioni medierebbe un negoziato che preveda:

  • il ritiro delle truppe di Ankara dal territorio siriano e in particolare dalla regione di Idlib
  • Bashar Assad si impegnerebbe a impedire alle milizie curde di sconfinare in Turchia, a concedere un’amnistia ai miliziani che getteranno le armi e ad accettare il ritorno dei profughi oggi presenti in Turchia
  • Mosca favorirebbe il reinsediamento dei profughi con la costruzione di alloggi e infrastrutture da realizzare anche con il supporto finanziario di Emirati Arabi Uniti e altre monarchie del Golfo che, dopo aver sostenuto a lungo in ribelli, hanno da tempo ripreso le relazioni con Damasco, tornata a sedersi nel consesso della Lega Araba.

Erdogan nelle ultime settimane ha aperto alla possibilità di un incontro trilaterale con Putin come mediatore e si è detto pronto a parlare con Assad. “Non c’è’ nessun motivo per non far ripartire le nostre relazioni diplomatiche. Non abbiamo alcuna mira su di un territorio che non ci appartiene, quello siriano è un nostro popolo fratello”, ha detto Erdogan che non ha rapporti con Assad (che aveva più volte definito “un criminale”, stesso termine affibbiato al premier israeliano Benjamin Netanyahu) dal 2011, quando scoppiò l’insurrezione in Siria.

Trovare una soluzione non sarà facile: a Idlib, dove vivono tre milioni di civili, le milizie jihadiste anti-Assad protette negli ultimi anni dai turchi temono le rappresaglie di Damasco una volta partiti i militari di Ankara mentre dal 24 luglio sono ripresi nella regione contesa i pattugliamenti congiunti russo-turchi lungo l’autostrada M4, di cui è stata annunciata la riapertura.

I pattugliamenti congiunti erano iniziati nel 2020 ma erano sospesi da un anno. Assad ha inoltre bisogno di chiudere le tensioni con la Turchia per far fronte alla crescente pressione militare israeliana contro le milizie filo-iraniane alleate di Damasco.

Se i negoziati tra Turchia e Siria andassero in porto si tratterebbe di un passo importante verso la stabilizzazione della regione, 13 anni dopo le primavere arabe sostenute dall’Occidente. Gli accordi porterebbero a intese di cui l’Europa beneficerebbe poiché il rimpatrio dei profughi siriani assistiti nel reinsediamento disarmerebbe la “bomba migratoria” che minaccia il nostro continente ma sul piano politico ancora una volta l’Europa resterebbe tagliata fuori dalla gestione della crisi, la cui soluzione rafforzerebbe l’influenza russa e turca in Medio Oriente in una fase in cui la presenza statunitense incontra sempre maggiori difficoltà.

 

Verso il ritiro americano

Il 26 luglio un drone e tre razzi lanciati con ogni probabilità da milizie scite filo-iraniane hanno colpito senza provocare danni o vittime la base di Ain al Asad, nella regione irachena occidentale di Anbar, al confine con la Siria. Due giorni prima si era tenuto a Washington il summit bilaterale sulla sicurezza tra i vertici militari statunitensi e iracheni incentrati sul prossimo ritiro dall’Iraq delle truppe americane e della Coalizione anti ISIS, di cui fanno parte anche contingenti di altre nazionalità incluse forze militari italiane.

Diverse fazioni politiche irachene considerano ormai i militari statunitensi alla stregua di “forze di occupazione” e lo stesso governo di Baghdad ha chiesto un piano per il ritiro di tali forze. Il 24 luglio il Pentagono aveva annunciato il raggiungimento di un accordo con le autorità irachene per “una nuova fase nelle relazioni bilaterali in materia di sicurezza” che prevederebbe “una cooperazione attraverso ufficiali di collegamento, formazioni e programmi tradizionali di cooperazione in materia di sicurezza”.

Non è stato reso noto un calendario del ritiro statunitense ma il governo di Baghdad ha chiesto che le forze della Coalizione comincino a ritirarsi in settembre e pongano ufficialmente fine alle loro attività entro settembre 2025, come riferito da media panarabi e iracheni.

Se l’accordo verrà confermato dei 2.500 militari statunitensi oggi presenti in Iraq potrebbero restare tra un anno solo alcuni consiglieri militari e questo significherebbe anche l’abbandono dei tre presidi di forze statunitensi (a tutti gli effetti forze di occupazione) situate presso i campi petroliferi siriani, alimentate dalle basi in Iraq mentre il presidio della base di al-Tanf, nel sud della Siria, è garantito dalle forze statunitensi presenti in Giordania.

Donald Trump fece di tutto durante la sua presidenza per ritirare le truppe dalla Siria, contro il parere del Pentagono, a causa dei rischi di scontri e per l’assenza di un supporto giuridico che ne legittimasse la presenza. Per questo non è da escludere che un suo ritorno alla Casa Bianca possa accelerare tale ritiro.

@GianandreaGaian

Foto: Ministero degli Esteri italiano, Presidenza Russa, Commissione UE e US DoD

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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