Ugledar come Bakhmut: l’inutile sacrificio dell’esercito ucraino

 

 

Di fronte all’incalzare dell’esercito russo a Ugledar, nel sud della regione di Donetsk, dove le offensive di Mosca ai lati della città hanno determinato il crollo delle linee ucraine, il comandante in capo delle forze armate ucraine, generale Alexander Syrsky, avrebbe impartito troppo tardi l’ordine di ritirare le truppe dalla città praticamente circondata e che secondo alcune fonti sarebbe caduta nelle scorse ore.

Ciò che è rimasto del personale della 72a brigata meccanizzata ucraina che ha presidiato e difeso quel settore del fronte per ben due anni (il cui comandante, colonnello Ivan Vinnik, sarebbe stato rimosso dal comando dopo lo sfondamento russo), ha ricevuto troppo tardi l’autorizzazione ad abbandonare le posizioni mentre secondo alcune indiscrezioni Volodymyr Zelensky avrebbe ordinato al generale Syrsky di tenere Ugledar almeno sino alla fine della sua visita negli Stati Uniti per evitare che il peggio potesse accadere durante la presentazione pubblica del suo “Piano per la vittoria”.

Mentre scriviamo, poco si sa della sorte di quei soldati anche perché oramai tutte le vie di evacuazione da Ugledar sono esposte al fuoco delle forze armate russe e a detta degli stessi ucraini, se i soldati della brigata non riuscissero a disimpegnarsi dal contatto con le truppe russe, rimarrebbero loro solo un paio di giorni ad essere ottimisti.

Secondo alcuni blogger militari russi e ucraini dopo il completamento dell’accerchiamento ogni tentativo di ritirata avrebbe provocato perdite ingenti: per questo alcuni reparti avevano cominciato ad arrendersi già il 30 settembre.

I russi del resto hanno assunto il controllo della strada per Bogoyavlenka tagliando di fatto ogni possibile via di fuga a quanto resta della guarnigione ucraina.

Il generale Syrsky avrebbe quindi obbedito agli ordini del suo presidente lasciando i soldati ucraini alla mercè del fuoco russo il più a lungo possibile. Infatti, come sappiamo, ha fama di uomo “pronto a sacrificare truppe e mezzi e troppo docile alle richieste del mondo politico”, come lo ha descritto l’Economist, e come già evidenziato in una precedente occasione su Analisi Difesa.

Del resto dallo scorso anno, non c’è stato appuntamento internazionale di rilievo dove Zelensky possa aver vantato risultati positivi utili per perorare le sue cause: il sostegno militare al conflitto, l’ammissione al club della NATO e, più recentemente, l’impiego di armi a lungo raggio per colpire la Russia.

Nel 2023, a Bakhmut, Zelensky aveva deciso di difendere le posizioni ad ogni costo, ignorando gli avvertimenti dei consiglieri statunitensi (e del suo stato maggiore) che per settimane hanno cercato di convincere il presidente ucraino che la battaglia era impossibile da vincere.

Il comandante ucraino incaricato della difesa della città, colonnello Pavlo Palisa, ha dichiarato al Washington Post di non essere mai stato informato dai suoi superiori delle raccomandazioni e delle informazioni dell’intelligence statunitense.

Questo perché il presidente ucraino aveva bisogno di risultati “tangibili” da portare al vertice NATO di Vilnius che si sarebbe tenuto nel mese di luglio di quell’anno, dove era in gioco la candidatura dell’Ucraina alla full membership dell’Alleanza Atlantica. Per la cronaca, Bakhmut è caduta in mano russa il 20 maggio del 2023.

Il 17 febbraio del 2024 in Germania, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, Zelensky ha annunciato dinnanzi a una platea a livello mondiale di sostenitori della causa ucraina, di aver ordinato alle proprie truppe di ritirarsi da Avdiivka per salvaguardare la vita dei suoi soldati e guadagnare linee difensive più vantaggiose.

La capacità di salvare il nostro popolo è il compito più importante per noi. Per evitare di essere circondati è stato deciso di ritirarsi su altre linee” aveva affermato Zelensky.

In realtà, la narrativa del rispetto e dell’attenzione alla tutela della vita dei militari è apparsa decisamente strumentale, e rivolta soprattutto al pubblico ucraino. Infatti, nonostante le proteste del generale Valery Zaluzhny, predecessore di Syrsky, il vertice politico di Kiev non aveva mai accettato l’idea di un ripiegamento in qualunque parte del fronte, sostenendo una lunga serie di battaglie difensive e offensive molto costose in termini di perdite.

Il ritiro da Avdiivka è stata la prima rilevante decisione assunta da Syrsky, nominato ai vertici della difesa l’8 febbraio quando ha sostituito Zaluzhny, ma la ritirata ucraina è stata imposta dallo sfondamento russo delle loro linee che avrebbe provocato il giorno della caduta della roccaforte ben 1.500 caduti e altrettanti prigionieri, per lo più feriti che non riuscirono a ripiegare..

Un’azione prudente tesa a salvaguardare realmente i reparti avrebbe dovuto includere già da alcune settimane il ritiro ordinato delle forze da quel settore poiché la situazione era da tempo senza speranze.

Unitamente agli ordini di “morire (inutilmente) sul posto” di cui la storia militare è purtroppo molto ricca, bisogna considerare anche le iniziative suicide, intraprese sulla pelle dei soldati, per il soddisfacimento di obiettivi politici miopi, come l’incursione di Kursk.

L’aspettativa sarebbe stata quella di ridurre la pressione sulle difese ucraine, secondo quanto ammesso dallo stesso presidente Zelensky in un’intervista rilasciata alla CNN. Inoltre, le conquiste di Kiev sarebbero dovute servire come merce di scambio in eventuali negoziati di pace potendo essere scambiate con il territorio ucraino e prigionieri russi.

Infine, l’operazione sarebbe servita per concedere una facile vittoria al presidente ucraino politicamente compromesso agli occhi della propria opinione pubblica e di quella internazionale. Nessuna di queste ragioni era di per sé sufficiente per giustificare un ulteriore sacrificio di vita umane, perché non risolutive delle sorti del conflitto oramai inesorabilmente a favore di Mosca.

Oltretutto, anche nella migliore delle ipotesi di successo ucraino, il controllo della centrale nucleare di Kurchatov e del nodo di Sudzha così come dei territori eventualmente conquistati, non avrebbe potuto essere duraturo data la sproporzione delle forze in campo. Impossibile pensare di occupare stabilmente del territorio russo, ancorché esiguo, sino all’inizio di possibili negoziati.

Infatti, nel giro di una decina di giorni i russi hanno ripreso il controllo della situazione, in settembre hanno iniziato a respingere gli ucraini senza aver dovuto sottrarre forze numericamente significative dall’offensiva principale nella regione di Donetsk.

I commenti degli opinionisti ucraini ma, soprattutto, dei militari sul campo, nei confronti della leadership politico militare di Kiev sono stati drammatici e impietosi, giudicando l’incursione come un’iniziativa controproducente e priva di senso.

In un momento cruciale per la tenuta del fronte principale della guerra tra Russia e Ucraina risorse preziose sono state inutilmente sprecate in un’avventura il cui esito era chiaro e definito sin dall’inizio.

Talmente chiaro, che il comandante dell’80a brigata d’assalto aviotrasportata ucraina, Emil Ishkulov, è stato rimosso dal proprio incarico perché alla vigilia dell’incursione, ritenendo l’attacco alla regione di Kursk un “suicidio”, si era rifiutato di guidare l’assalto. Inoltre, a un mese dall’inizio dell’operazione, Bloomberg ammetteva che gli alleati non sapevano cosa pensare dell’attacco suicida di Zelensky a Kursk.

Il presidente ucraino e il comandante in capo delle sue forze armate (insieme nella foto sotto) , condividono quindi la pesante responsabilità di aver sacrificato la vita dei propri soldati per questioni di reputazione e di facciata aventi a che fare più con il mero calcolo politico (la propria sopravvivenza) che con l’andamento delle operazioni e gli obiettivi della guerra.

I soldati non dovrebbero mai essere considerati pedine da sacrificare per fini personali o politici, e tantomeno risorse da poter perdere a seguito di valutazioni errate e poco accurate di una situazione operativa.

Quando le vite dei soldati vengono spese in maniera superficiale o manipolatoria, ciò mina la fiducia non solo dei militari, ma anche dei cittadini nella leadership del proprio paese. E a giudicare da quello che sta accadendo nelle ultime ore in Ucraina sembra che l’epilogo sia proprio questo.

I reclutamenti forzati stanno creando malcontento nella società ucraina che non ha più fiducia in un esito positivo della guerra, ed è spaventata dall’idea di mandare i propri figli al fronte per un tempo indeterminato e, soprattutto, di affidarli a leader senza scrupoli. Inoltre, secondo il canale ucraino RezidentUA, l’agenzia di sicurezza e controspionaggio di Kiev (SBU) starebbe prendendo di mira i comandanti che criticano il governo e Zelensky.

Destino crudele di soldati intrappolati tra il fuoco nemico e i mastini sguinzagliati dal proprio presidente, terrorizzato dall’idea di perdere il proprio potere. Una brutta prospettiva e un’eredità difficile da gestire per i militari dell’Ucraina che verrà, dopo la guerra, se riusciranno a farla franca.

Foto: Telegram e Ministero della Difesa Ucraino

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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