Cosa (non) cambia nella guerra di Israele con la morte di Sinwar

 

Mentre Israele e diversi esponenti di governo in America ed Europa esultano per l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar, ucciso il 17 ottobre dalle truppe israeliane in combattimento nella parte meridionale della Striscia di Gaza, ci si interroga ora su quali sviluppi potrà determinare l’eliminazione dell’uomo considerato da Israele la mente e il braccio dell’attacco del 7 ottobre 2023.

Sinwar è stato ucciso ”con un colpo di pistola alla testa” ha fatto sapere il medico legale che ha effettuato l’autopsia, Chen Kugel, capo dell’Istituto forense israeliano, per il quale “Sinwar era pallido”, come se avesse trascorso molto tempo nei tunnel, pesava circa 68 chili e mostrava ”segni di una cattiva alimentazione”.

Durante lo scontro a fuoco che ha portato alla sua uccisione il leader palestinese è stato anche ferito al braccio e Kugel ha spiegato che ”i militari israeliani gli hanno tagliato un dito” per poterlo portare ai medici competenti e permettere loro di condurre l’esame del DNA.

Solo una volta confermata l’identità, il corpo di Sinwar è stato trasferito in Israele in una località segreta come ha riferito il sito Walla. L’autopsia svolta presso l’istituto forense Abu Kabir durante la notte ha confermato che Sinwar è stato ucciso da un colpo di pistola alla testa e ferito prima da altri colpi di proiettili.

La Difesa israeliana ha pubblicato ieri un nuovo filmato in cui si vede un carro armato che spara contro una casa dove Sinwar si era rifugiato dopo uno scontro a fuoco con i soldati israeliani.

L’esercito ha affermato che Sinwar è stato ucciso insieme a due miliziani nel sud della Striscia di Gaza quando un carro armato ha colpito l’edificio in cui si era rifugiato.

La morte di Yahya Sinwar ha destato reazioni diverse. Entusiasmo in Israele e compiacimento in occidente. Nato nel 1962 a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, Siwar aveva trascorso dal 1989 al 2011 22 anni nelle carceri israeliane, dove ha imparato l’ebraico. Tra i fondatori dell’ala militare di Hamas, le Brigate al Qassam, era considerato da Israele la mente dell’attacco del 7 ottobre 2023, in cui sono state uccise più di 1.200 persone tra militari e civili.

Sinwar era stato condannato da Israele a quattro ergastoli per il rapimento e l’uccisione di due militari israeliani e quattro palestinesi accusati di collaborazionismo ma era stato liberato nel 2011 in base a un accordo tra il movimento islamista e Israele per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, in cambio di prigionieri palestinesi.

Da allora era nel mirino dell’intelligence e delle Israeli Defence Forces (IDF) israeliane. Specie dopo che nel 2017 divenne il comandante della Striscia di Gaza. Leader militare, lo scorso agosto era stato nominato capo dell’ufficio politico di Hamas a seguito dell’uccisione di Ismail Haniyeh in Iran, in un attacco israeliano.

“Sinwar ha incontrato la sua fine combattendo coraggiosamente, a testa alta, impugnando la sua arma da fuoco, sparando fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo momento della sua vita” ha affermato Khalil Hayya, attuale comandante di Hamas a Gaza.

”Ha sfidato il nemico, non si è sottratto e per questo è motivo di orgoglio per il nostro movimento” recita un comunicato delle Brigate al-Qassam. “Il nemico è un illuso se pensa che assassinando i grandi leader come Sinwar, Haniyeh, Sayed Nasrallah, Al-Arouri e altri potrà spegnere la fiamma della resistenza o spingerla a ritirarsi” dalla lotta. ”La nostra lotta non si ferma fino a quando la Palestina sarà liberata, l’ultimo sionista verrà espulso e tutti i nostri diritti legittimi verranno rispettati”.

A Teheran il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha celebrato il leader di Hamas morto “come un eroe. Il martirio di comandanti, dei leader e degli eroi non intaccherà la lotta del popolo islamico contro l’oppressione e l’occupazione”.

Un alto funzionario di Hamas, Mahmoud Mardawi, ha affermato che dopo l’omicidio di Yahya Sinwar “la scelta di un successore non richiederà molto tempo, è una procedura naturale. I nostri termini riguardo ai negoziati per il cessate il fuoco non cambieranno dopo la morte di Sinwar”.

Già in passato l’eliminazione di leader di gruppi terroristici e insurrezionali non ha coinciso con lo scioglimento o il crollo delle capacità operative di queste organizzazioni. Nel caso di Hamas (o di Hezbollah) la struttura politica e militare è troppo solida e ramificata perché si possa pensare che la morte dei leader ne annienti le capacità.

Non c’è dubbio che un anno di operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza abbiano pesantemente ridotto le capacità delle sue 5 brigate (con 24 battaglioni) delle Brigate al-Qassam per un totale di 20 mila combattenti stimato nell’ottobre 2023.

Il fatto che Sinwar sia stato ucciso in combattimento dimostra che le operazioni a Gaza non sono ancora concluse e le milizie palestinesi sono ancora in grado di opporre una seppur ridotta resistenza. Migliaia di combattenti sono stati certamente uccisi o feriti in un anno di operazioni militari israeliane.

Come ha ricordato Mirko Molteni nel suo ultimo articolo su Analisi Difesa, l’11 settembre scorso il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant annunciò che Gaza “non è più un’emergenza”, rispetto all’escalation con gli Hezbollah libanesi. A dimostrazione che le milizie di Hamas erano allo stremo ha divulgato un messaggio intercettato dall’intelligence militare (Aman) he testimonierebbe le difficoltà di Hamas dopo un anno di martellamenti e combattimenti in cui il comandante della Brigata Khan Yunis di Hamas, Rafaa Salameh, descriveva a Sinwar e a suo fratello Muhammad le condizioni del suo reparto.

“Abbiamo perso il 90-95% dei nostri razzi, il 60% delle armi portatili, il 65-70% delle armi anticarro. Peggio, abbiamo perso il 50% dei nostri uomini, fra martiri (cioè morti) e feriti, ma siamo rimasti col 25%, poiché l’altro 25% non ce la fa più nel fisico e nella mente”.

Difficile dire se si tratti di un vero messaggio intercettato o di propaganda israeliana tesa a dimostrare che la battaglia a Gaza è vinta e si può dare inizio alla campagna militare in Libano contro Hezbollah. Gallant comunque assicurò quel giorno Benjamin Netanyahu che “l’esercito è pronto a una vasta operazione in Libano”.

Solo nelle prossime settimane sarà possibile comprendere se e con quali capacità Hamas sarà in grado di continuare la lotta dopo aver combattuto un anno nella Striscia di Gaza che le IDF contavano di espugnare in due o tre mesi.

L’uccisione di Sinwar è “il risultato di un anno di sforzi operativi e di intelligence per consegnare alla giustizia lui e altri leader di Hamas” ha scritto oggi  su X il portavoce delle IDF, contrammiraglio Daniel Hagari. “Sinwar è stato eliminato, ma la nostra missione non è finita”.

Se non è il caso che Israele si faccia troppe illusioni circa l’impatto dell’uccisione di Sinwar su Hamas, neppure l’Occidente dovrebbe scommettere sulla morte del leader palestinese per indurre Israele a fermare la sua macchina bellica. Dagli Stati Uniti e da molte nazioni europee stanno infatti emergendo appelli a Tel Aviv affinché consideri la morte della “mente” dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023 come una vittoria sufficiente a fermare la guerra e a condurre in porto un negoziato per la liberazione degli ostaggi israeliani.

La morte di Sinwar apre un’opportunità per il progresso: era la mente del 7 ottobre, responsabile per 1200 morti, la morte di molti americani. Sinwar ha speso la sua vita per impedire la pace tra Palestina e Israele. La priorità è il rilascio degli ostaggi, non devono stare in prigionia altre ore, hanno vissuto l’inferno”, ha detto il capo del Pentagono Lloyd Austin, sottolineando che ora c’è la chance per finire la guerra.

Tel Aviv potrebbe forse negoziare con Hamas la restituzione del corpo di Sinwar in cambio della liberazione degli ostaggi (o di una parte di essi) catturati dalla milizia palestinese il 7 ottobre 2023 che restano, vivi o morti, nelle mani Hamas.

Da Israele non sembrano al momento emergere segnali di disponibilità a negoziare e del resto Israele ha ucciso tutti i principali leader nemici, militari e politici, segno inequivocabile che non intende avviare trattative anche se le pressioni dell’opinione pubblica su Netanyahu potrebbero determinare un cambio di atteggiamento.

A inasprire la posizione di Israele contribuiscono però gli attacchi di droni di Hezbollah che hanno colpito negli ultimi giorni basi militari ben all’interno del territorio dello Stato ebraico: l’ultimo in ordine di tempo ha visto uno sciame di droni colpire una base di difesa aerea situata a est di Hadera, nel centro di Israele: l’operazione è stata dedicata alla memoria di Hassan Nasrallah.

Il 19 ottobre invece un drone lanciato da Hezbollah è sfuggito alla difesa aerea ed è esploso a Cesarea, quanto pare contro la casa di Netanyahu. L’attacco è fallito, il premier e la moglie non erano in casa, ma un alto funzionario del governo israeliano ha puntato l’indice contro Teheran, affermando che “l’Iran ha cercato di eliminare il primo ministro di Israele”. L’Iran ha però fatto sapere che l’azione è stata intrapresa dagli Hezbollah libanesi.

L’attacco contro la residenza di Netanyahu, secondo l’emittente Channel 12, è stato eseguito da uno Ziyad 107 di costruzione irtaniana (nella foto sopra), lo stesso drone di costruzione iraniana utilizzato da Hezbollah per colpire la base di addestramento della Brigata Golani a Regavim, costato la vita ad almeno quattro militari.

Elementi che da un lato evidenziano vulnerabilità di Israele a droni e missili balistici iraniani e di conseguenza le difficoltà della difesa aerea e antimissile, penalizzata peraltro da una forte carenza di missili da difesa aerea, confermate indirettamente dall’arrivo di una (forse presto due) batteria del sistema antimissile THAAD.

Allo stesso tempo l’ira di Israele per le vulnerabilità che ha scoperto di avere e l’attacco portato direttamente contro il suo premier (una risposta alle “esecuzioni” di Ismail Hanyeh a Teheran e Hassan Nastallah a Beirut?) non sembrano lasciare margini alla trattativa.

@GianandreaGaian

Foto: al-Manar e EPA

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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