Il ritorno di Trump

 

Donald Trump è il trionfatore nella corsa alla Casa Bianca sia per i voti incassati tra i “grandi elettori” e nel voto popolare sia per il successo del Partito Repubblicano nelle elezioni del Congresso. Prima ancora dell’Amministrazione Biden e di Kamala Harris, a uscire sconfitti dal voto americano è il circuito mediatico che ha dimostrato la sua totale inattendibilità e partigianeria.

Pronostici, valutazioni e sondaggi resi noti negli Stati Uniti ma anche in Europa e in Italia hanno dato fino all’ultimo i due rivali testa e testa con un leggero vantaggio per Kamala Harris. Previsioni rivelatesi talmente infondate da alimentare il sospetto che fossero indirizzate più a influenzare il voto degli americani che a fotografarne l’orientamento. Pura propaganda alimentata da media, mondo della cultura e dello spettacolo fin troppo chiaramente schierati con il Partito Democratico che però aveva sollevato ancora una volta un polverone per denunciare (complici anche diversi “zelanti” alleati europei) la “disinformazione russa” tesa a influenzare il voto a favore di Trump.

Difficile credere che coloro che davano Trump e Harris testa a testa nel voto americano si siano tutti sbagliati: appare quindi più probabile che la disinformazione (la nostra, non quella russa) abbia prevalso ancora una volta come è apparso chiaro seguendo alcune “maratone” televisive nostrane.

In queste come in altre elezioni il tema dell’inaffidabilità e dell’informazione (anzi, della disinformazione) attuata da gran parte del circo mediatico occidentale è emerso in modo talmente eclatante da rappresentare paradossalmente una minaccia per l’opinione pubblica e per la democrazia. Specie in un contesto in cui, dalle due sponde dell’Atlantico, si moltiplicano appelli e iniziative tese a limitare o sopprimere la libertà di espressione nel nome della “lotta alla disinformazione”.

In realtà, a determinare il successo del candidato repubblicano sembrano essere stati gli elementi emersi il 5 novembre in un sondaggio effettuato tra gli elettori dalla CNN che ha rivelato come solo il 5% ritenga che l’economia americana sia in uno stato di forma eccellente, mentre circa il 70% ritiene che non versi in buono stato.

Mentre giornali e tv “mainstream” ci ricordavamo come Biden avesse risollevato l’economia USA dopo i disastri ereditati dal primo mandato di Trump, solo il 25 per cento degli elettori statunitensi afferma di vivere meglio rispetto a quattro anni fa, il 45% che afferma di stare peggio e un elettore su cinque ritiene che l’inflazione sia la causa di gravi difficoltà nell’ultimo anno.

In base alla stessa rilevazione il 43% degli elettori si sono detti “insoddisfatti” dell’andamento degli USA, il 29% di “arrabbiati” contro il 19% di “soddisfatti” e il 7% di “entusiasti”. Per il 61% degli intervistati, i giorni migliori per l’America sono “nel futuro”, e per il 34% “nel passato”.

A conferma del pesante giudizio sull’Amministrazione uscente, il 58% degli intervistati ha detto di “disapprovare” l’operato del presidente Joe Biden, rispetto al 41% di “approvazione”. Possibile che gli umori degli americani siamo rimasti così a lungo invisibili? Che per mesi non siano stati “percepiti” dai media durante la .lunga campagna elettorale?

Per valutare come Trump affronterà le tre grandi crisi politiche e militari internazionali (Ucraina, Medio Oriente e Cina/Taiwan) occorre rifarsi alle dichiarazioni del presidente e a quanto fatto nel suo primo mandato tenendo presente che la contingenza potrebbe mutare l’approccio enunciato in campagna elettorale.

In Ucraina Trump ha sempre sostenuto che interromperà il conflitto in breve tempo e una bozza del suo piano di pace è stata affidata da tempo al premier ungherese Viktor Orban che l’ha promossa A Kiev, Mosca, Ankara e Pechino incassando la quasi generale riprovazione dell’Unione Europea.

Non a caso ieri Orban ha detto che la vittoria dei repubblicani e di Donald Trump negli Stati Uniti significano che sarà necessaria una nuova strategia europea nei confronti dell’Ucraina. Secondo Orban, dopo il voto americano l’Europa da sola difficilmente sarà in grado di mantenere il sostegno militare e finanziario all’Ucraina. “Ci sono seri dubbi su questo tema, ed è per questo che sarà necessaria una nuova strategia europea”.

Orban è il leader europeo più vicino a Trump e il più lontano dalle politiche della Commissione Ue rispetto a diversi temi inclusa l’Ucraina. Un motivo in più per temere l’approccio di Trump all’Europa che potrebbe rivelarsi più incline a puntare su relazioni bilaterali con i singoli stati che con una Commissione von der Leyen orientata verso  “green e guerra”.

Al di là del tifo espresso in Europa da fans e detrattori di Trump,  è meglio non farsi troppe illusioni. Nessun presidente USA curerà mai gli interessi dell’Europa, come hanno dimostrato negli ultimi 15 anni il ruolo di Washington e soprattutto delle amministrazioni de Partito Democratico, nella destabilizzazione di Nord Africa, Medio Oriente e Ucraina.

Trump punterà a negoziare la fine del conflitto in Ucraina (puntando forse sui suoi vecchi alleati dell’entourage dell’ex presidente Pretro Poroshenko) soprattutto perché non intende investire altro denaro americano nella guerra e del resto non ha nascosto in più occasioni la scarsa considerazione nei confronti di Volodymyr Zelensky (che si è complimentato ieri con il neo-presidente) a cui ha ricordato persino i suoi ottimi rapporti con Vladimir Putin.

In che tempi e con quali termini proporrà la fine delle ostilità in Ucraina lo vedremo dopo l’insediamento alla Casa Bianca, dove Trump entrerà intorno al 20 gennaio 2025, salvo sorprese: non è detto infatti che i tentativi di assassinarlo cessino dopo il voto.

Sui campi di battaglia è però presumibile che i russi sfrutteranno i prossimi due mesi e mezzo per accelerare il più possibile la loro avanzata in Donbass (compatibilmente con le piogge autunnali) cercando di provocare il tracollo delle forze di Kiev.

Durante il suo primo mandato Trump ha rafforzato l’apparato militare statunitense ma non ha scatenato guerre, anzi ha trattato con i Talebani il disimpegno dall’Afghanistan e aveva aperto le trattative con il presidente nordcoreano Kim Jong-un (oggi strettissimo alleato della Russia), con cui la ripresa dei colloqui dipenderà anche da buone relazioni tra Casa Bianca e Cremlino.

In ogni caso è immaginabile che Trump lascerà agli europei il conto salato del dopoguerra, della ricostruzione dell’Ucraina e il costo economico e militare della gestione dei rapporti post-bellici con la Russia.

Nella consolidata visione di Trump, la NATO è utile solo se gli europei pagano per mantenere la protezione dell’ombrello nucleare statunitense, con nuove spese militari tese per lo più ad acquistare armamenti “made in USA”. Da uomo d’affari guarderà presumibilmente più a portare a casa lucrose commesse che a lanciarsi in guerre costose in termini finanziari e di vite umane, anche tenendo conto dell’enorme debito pubblici statunitense.

In Medio Oriente, Trump ha promesso il massimo supporto a Benjamin Netanyahu (i due si sono sentiti ieri), sempre più in difficoltà sul fronte interno come sui fronti bellici, sostenendo Israele come o più di dell’Amministrazione Biden che in un anno di guerra ha fornito a Israele quasi 9 miliardi di dollari di aiuti militari extra.

Il presidente israeliano Isaac Herzog ha scritto sui social che “Trump è un vero e caro amico di Israele e un campione di pace e cooperazione nella nostra regione”. Il neo-ministro della Difesa Israel Katz, ha detto che con Trump “riporteremo indietro gli ostaggi” “e resteremo fermi per sconfiggere l’asse del male guidato dall’Iran”. Secondo la Reuters, un alto funzionario di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha sfidato Trump esortandolo a “imparare dagli errori di Biden”.

Nonostante l’ostilità nei confronti dell’Iran, con cui interruppe gli accordi sul programma nucleare, è probabile che Trump cerchi di trovare una soluzione alla crisi in Medio Oriente che rinnovi gli accordi di Abramo tra le monarchie arabe del Golfo e Israele e renda più gestibili i rapporti con l’Iran anche per scongiurare una guerra che per gli USA avrebbe alti costi.

Pur senza volersi spingere troppo in là ipotizzando la politica della nuova amministrazione USA, le buone relazioni tra Trump e Putin, se verranno confermate da un accordo per cessare le ostilità in Ucraina, potrebbero determinare una soluzione anche in Medio Oriente considerando la sempre più forte influenza di Mosca sull’Iran e le fortissime relazioni militari bilaterali.

Indipendentemente dal colore delle sue amministrazioni, Washington considera la Cina il principale rivale in termini economici, strategici e militari e il Pacifico l’area su cui concentrare interessi e risorse anche militari.

Questo approccio difficilmente potrà cambiare con Trump, poiché il Pacifico testa l’area di maggiore crescita mondiale, ma The Donald potrebbe puntare più su accordi commerciali con Pechino che su un braccio di ferro militare intorno a Taiwan.

Anche grazie agli errori bellici e politici dell’Amministrazione Biden, soprattutto quello di voler imporre al mondo l’isolamento della Russia, la competizione che gli USA dovranno affrontare non è più solo con Pechino o con altre singole nazioni ma con la sempre più vasta area BRICS, che punta a ridurre l’impiego del dollaro nelle transazioni commerciali.

Trump del resto considera Taiwan un pericoloso rivale commerciale in alcuni settori industriali (ad esempio la produzione di microchip) anche se ieri il direttore generale dell’ufficio per la sicurezza nazionale di Taipei, Tsai Ming-yen, si è dette convinto che gli Stati Uniti continueranno a tenere una “postura amichevole” e a limitare le pretese della Cina nello Stretto.

Anche le aperture di XI a relazioni distese con l’Amministrazione Trump sembrano porre le basi per un clima più disteso, se non sul piano commerciale almeno su quello militare.

@GianandreaGaian

Foto MAGA e KCNA

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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