Damasco come Kabul. La fuga di Assad è il “capolavoro” di Hakan Fidan – AGGIORNATO

 

(Aggiornato alle ore 23,55)

Il repentino crollo, quasi senza combattere, dell’esercito Arabo Siriano e l’altrettanti rapido collasso delle strutture di governo siriane, subito dichiaratesi pronte a cooperare con gli insorti, impongono di porsi molti interrogativi circa le origini, le cause e i mandanti del blitz che in una dozzina di giorni ha portato alla caduta del regime di Bashar Assad a Damasco.

Mancano molti elementi necessari a compiere analisi e valutazioni esaustive, altri sono vagamente intuibili dalle prime dichiarazioni e prese di posizione mentre alcuni aspetti sono palesemente evidenti in un contesto siriano in cui oggi non è possibile dare nulla per scontato.

Quello che è accaduto tra il 27 novembre e l’8 dicembre in Siria assomiglia molto a quanto accadde in Afghanistan nell’estate 2021, quando le milizie talebane avanzarono repentinamente in tutta il territorio nazionale mentre i reparti governativi gettavano le armi e i governatori regionali aprivano le sedi governative ai capi talebani. Solo in seguito emerse che dopo gli accordi di Doha e l’inizio del ritiro statunitense e degli altri alleati occidentali emissari talebani ben supportati, anche finanziariamente, dall’intelligence pakistana si assicurarono il supporto di tutte le autorità civili e militari solo teoricamente fedeli al presidente Ashraf Ghani.

Il sistema di potere caratterizzato da forte corruzione e la fuga di Ghani da Kabul negli Emirati Arabi Uniti, il 15 agosto 2021, aggiungono un ulteriore parallelismo tra le vicende afghane di tre anni or sono e quelle siriane di oggi, non ultimo le congratulazioni dei talebani al popolo e ai ribelli siriani con l’auspicio di  “una transizione condotta secondo le aspirazioni del popolo siriano” oltre che nella fine delle ingerenze straniere.

Ghani fuggì ad Abu Dhabi, Bashar Assad ha raggiunto prima la base area russa di Hmeymin (Latakya) a bordo di un cargo russo Il-76 (che con ogni probabilità ha imbarcato anche familiari e i più stretti collaboratori) e successivamente  la Russia dove sarebbero stati trasferiti la moglie e i figli già la scorsa settimana.

Restano dubbi sulla fuga del rais, apparso in pubblico l’ultima volta all’incontro con il ministro degli Esteri iraniano a Damasco di una settimana fa. Secondo Rami Abdul Rahman, responsabile dell’Osservatorio siriano per i diritti umani con sede a Londra, un aereo che si ritiene trasportasse Assad è decollato alle 22 di ieri (7 dicembre) dall’aeroporto internazionale di Damasco prima che le forze di sicurezza dell’esercito lo lasciassero” la struttura.

Tuttavia Flightradar24 non ha registrato alcuna partenza a quell’ora, anche se un aereo passeggeri della Cham Wings Airlines è partito intorno alle 00:56 alla volta di Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti.

Un consigliere diplomatico del presidente degli Emirati Arabi Uniti, citato da BBC, ha dichiarato di non essere al corrente della presenza di Assad ad Abu Dhabi. Reuters ha ripreso invece fonti che ritengono che Assad abbia preso un volo cargo della Syrian Air decollato dall’aeroporto di Damasco nelle ore in cui la capitale veniva conquistata dalle forze di opposizione.

Flightradar24 ha rilevato che un aereo cargo Ilyushin Il-76T della compagnia è decollato alle 03:59 verso una destinazione ignota. Dopo aver volato inizialmente verso est, il velivolo ha iniziato a virare a nord-ovest per dirigersi verso la costa mediterranea e la base aerea russa di Hmeymim (nella foto sotto) .

Il segnale del transponder dell’aereo è stato perso intorno alle 04:39, quando si trovava a circa 13 chilometri a ovest di Homs e volava a un’altitudine di soli 495 metri. Flightradar24 ha reso noto in un post su X che l’aereo ”era vecchio con una vecchia generazione di transponder, quindi alcuni dati potrebbero essere danneggiati o mancanti”, che stava ”volando in un’area di disturbo del Gps, quindi alcuni dati potrebbero essere danneggiati” e che non era a conoscenza di alcun aeroporto nella zona in cui il segnale è stato perso.

Circa l’uscita di scena di Assad restano quindi alcune zone d’ombra ma è interessante esaminare quanto ha reso noto con un comunicato il ministero degli Esteri russo.

Il presidente siriano, Bashar al Assad, dopo i negoziati con alcuni partecipanti al conflitto siriano, ha deciso di dimettersi dall’incarico e ha lasciato la Siria “dando istruzioni di trasferire pacificamente il potere” ha riferito il ministero di Mosca. “A seguito dei negoziati tra Bashar al Assad e alcuni partecipanti al conflitto armato sul territorio della Repubblica Araba Siriana, Assad ha deciso di lasciare la carica presidenziale e ha lasciato il Paese, dando istruzioni per effettuare il trasferimento del potere pacificamente.

La Russia non ha partecipato a questi negoziati”, si legge nel messaggio sul canale Telegram del ministero degli Affari esteri russo.

Nel messaggio si sottolinea inoltre che la Russia segue con estrema preoccupazione i drammatici avvenimenti siriani e che “le basi militari russe sul territorio della Siria sono in regime di massima allerta. Al momento non c’è alcuna minaccia seria alla loro sicurezza”. La TASS ha poi riferito che il personale dell’ambasciata russa in Siria è “al sicuro”.

In serata fonti del Cremlino hanno confermato che Bashar Assad è stato accolto a Mosca con la sua famiglia per “ragioni umanitarie”.  La fonte ha sottolineato l’impegno della Russia per un processo di pace inclusivo evidenziando che “i funzionari russi sono in contatto con i rappresentanti dell’opposizione armata siriana, i cui leader hanno garantito la sicurezza delle basi militari russe e delle missioni diplomatiche,” ha aggiunto la fonte.

Considerazioni che sembrano suggerire che ci sia stato un passaggio di poteri più che il collasso del regime ma che non spiegano come una forza insurrezionale come Hayat Tahrir al-Sham, accreditata dal Military Balance di 10mila combattenti (altre fonti ne stimano fino a 15mila) su un totale di circa 70mila che comporrebbero le diverse milizie anti-governative per lo più jihadiste e 50 mila inquadrati nelle milizie curde e arabo-sunnite delle Forze Democratiche Siriane schierate nel nord e nell’est della Siria, possano aver conquistato una così larga fetta di territorio quasi senza combattere.

Certo l’offensiva scatenata il 27 novembre dalla provincia di Idlib è stata attentamente preparata grazie all’afflusso di molte armi, veicoli, droni-suicidi e probabilmente al supporto di contractors o consiglieri militari stranieri tra cui certamente gli ucraini. Mosca ha accusato Kiev di aver inviato i propri uomini dei servizi segreti militari (GUR) in Siria, il governo ucraino ha negato ma in precedenza lo stesso GUR si era pubblicamente attribuito la paternità di attacchi e attentati contro le forze russe.

E a proposito di forniture di armi ai ribelli, il ministero degli Affari esteri dell’Iran ha chiesto il 6 dicembre la cessazione del sostegno dell’Ucraina ai terroristi in Siria.

Secondo l’agenzia di stampa iraniana Mehr, Mojtaba Damirchiloo, direttore generale del dipartimento Eurasia del ministero degli Affari esteri, ha denunciato forniture di armi di origine statunitense da parte di alcuni funzionari ucraini e il sostegno di Kiev ai gruppi terroristici in Siria.

Nulla di nuovo in realtà, già nell’estate 2023 il premier israeliano Benjamin Netanyahu denunciò la presenza di armi occidentali cedute all’Ucraina nelle mani di milizie “nemiche di Israele”

Armi a parte, l’afflusso a Idlib di tante milizie jihadiste straniere (cecene, uigure, kirghize, uzbeke…..) che avevano fatto parte delle legioni islamiche internazionali di al-Qaeda e dello Stato islamico, hanno senza dubbio gonfiato gli organici dei ribelli così come hanno contribuito a farlo le milizie filo-turche che però si sono concentrate soprattutto sulle operazioni tese a cacciare i curdi dai dintorni di Aleppo e oggi da Manbji, che secondo fonti turche sarebbe già per l’80 per cento in mano alle milizie filo-Ankara.

Non a caso gli unici scontri che si registrano in Siria in queste ore sono quelli tra i miliziani filo-turchi sostenuti da Ankara e le forze di autoprotezione curde (YPG).

Anche contando tutti i contributi esterni i ribelli, per lo più dotati di armi leggere e portatili (inclusi droni FPV ormai immancabili in ogni teatro bellico), non avrebbero potuto prendere così rapidamente il sopravvento ad Aleppo, Hama, Homs, Damasco e poi anche a Latakya e Tartus (in quell’area costiera “feudo” degli alauiti di Assad) se le forze siriane avessero opposto una reale resistenza.

Sempre secondo il Military Balance Le forze armate siriane sono accreditate di 170mila militari e 100 mila gendarmi e paramilitari a cui si aggiungono almeno 4mila militari russi, un migliaio di pasdaran iraniani e 2mila Hezbollah libanesi con centinaia di mezzi corazzati, artiglierie e oltre 200 aerei ed elicotteri.

A quanto sembra però il cambio di regime a Damasco non sembra essersi mai posto in realtà come una questione militare. Se nei primi giorni dell’offensiva di HTS alcuni reparti siriani hanno combattuto con decisione grazie anche al supporto aereo delle forze aeree siriane e russe (infatti le stime registravano un numero di perdite tra i ribelli ben più alte di quelle governative) già pochi giorni dopo fonti russe rilevavano l’assenza di volontà di combattere tra le truppe governative.

Se a Kabul tra giugno e agosto 2021, l’avanzata talebana venne ostacolata solo dai reparti d’élite delle Special Forces dell’Afghan National Army mentre gli altri reparti si arrendevano, le forze siriane hanno continuato a ripiegare prima da Aleppo a nord di Hama, poi intorno a Homs, poi dalle regioni orientali e da quella meridionale di Deraa per confluire intornio a Damasco ritirandosi anche dall’area di Ghouta e infine lasciando penetrare gli insorti fino ai palazzi governativi.

 

Le reazioni

Solo ieri il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov definiva nei colloqui di Doha “inammissibile permettere a un gruppo terroristico di prendere il controllo della Siria in violazione degli accordi esistenti, a partire dalla risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha ribadito con forza la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità della Repubblica araba siriana”.

Dal 6 dicembre l’Iran aveva iniziato a evacuare via terrestre o aerea il proprio personale e anche i comandanti e i consiglieri militari della Forza Quds dei Pasdaran dalla Siria trasferendoli in Iraq e Libano, secondo quanto riferito dal New York Times citando fonti siriane e iraniane. Allo stesso tempo il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ribadiva che l’Iran continuerà a sostenere il regime di Damasco “con tutta la sua forza, qualsiasi cosa le serva e che sia richiesta dal governo siriano”.

Lo stesso giorno fonti anonime avevano riferito al Wall Street Journal che Assad aveva chiesto alla Turchia di fermare l’avanzata dei ribelli e a Emirati Arabi, Giordania ed Egitto “armi e sostegno in termini di intelligence”.

Alcuni funzionari arabi e siriani hanno detto al quotidiano statunitense che gli aiuti sarebbero stati rifiutati, mentre ad Assad sarebbe stato suggerito da Egitto e Giordania di lasciare la Siria e formare “un governo in esilio”.

Sempre il 6 dicembre, dopo il vertice dei ministri degli Esteri di Siria, Iran e Iraq a Baghdad, il portavoce del governo iracheno, Basim al-Awadi, ha dichiarato che l’Iraq “non cerca un intervento militare in Siria. Tutto ciò che accade in Siria è strettamente legato alla sicurezza nazionale irachena. L’Iraq non tollererà alcun attacco alla sua sicurezza e sovranità”.

Oltre 4mila militari e diversi funzionari siriani si sono rifugiati con le famiglie oltre il confine irachena fuggendo dalla Siria Orientale dove le postazioni governative nella regione di Deir Azzor e sul confine iracheno sono state rilevate dalle milizie delle FDS mentre i miliziani di HTS hanno preso il controllo della frontiera giordana.

 

Ombre turche

Oggi sia l’esercito iracheno che quello libanese hanno rafforzato i presidi ai confini siriani ma è stato il 6 dicembre che è apparso ragionevolmente chiaro chi fossero gli sponsor degli insorti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha detto che la Turchia si augura che “la marcia” in Siria delle forze di opposizione al governo di Bashar al Assad “continui senza problemi o incidenti con l’obiettivo ovviamente di arrivare a Damasco, dopo Idlib, Hama e Homs. Abbiamo lanciato un appello ad Assad invitandolo a determinare insieme il futuro della Siria ma sfortunatamente non abbiamo ricevuto una risposta positiva“, ha affermato Erdogan.

Sempre non casualmente il primo annuncio ufficiale della caduta del regime di Assad è giunto dai ribelli dui HTS e subito dopo dal ministro degli Esteri turco (che è stato alla testa dell’intelligence di Ankara, il Millî İstihbarat Teşkilatı, dal 2010 al 2023) Hakan Fidan (nella foto sotto), probabilmente il vero artefice di tutta l’operazione che ha portato al “regime change” a Damasco.

“Il governo siriano è collassato e il controllo del Paese è passato di mano” ha detto Fidan spiegando che Ankara “è in contatto con i ribelli per garantire la sicurezza” all’interno della Siria.

Del resto, come avevano scritto in un precedente articolo solo il supporto diretto e indiretto turco poteva rendere possibile questa offensiva partita dalla provincia di Idlib che confina solo con la Turchia che per ampliare la penetrazione nelle terre arabe che appartennero all’Impero Ottomano deve scalzare l’influenza scita e iraniana. Inoltre ora Ankara potrà rimpatriare i 3 milioni di profughi siriani fuggiti in Turchia durante la guerra civile e divenuti sempre più “scomodi” per i consensi di Erdogan.

Sull’operazione turca tesa a scalzare l’influenza iraniana convergono anche gli interessi di Israele, di certo oggi non un alleato della Turchia, ma che vede di buon occhio i pasdaran iraniani lasciare la Siria, utilizzata per rifornire di armi e addestrare le milizie Hezbollah.

Come misura cautelare (i ribelli jihadisti non sono certo filo-israeliani) l’’esercito israeliano ha annunciato oggi di aver dispiegato truppe aggiuntive nelle Alture del Golan dopo l’annuncio della caduta di Damasco.  “Le Israeli Defence Forces (IDF) hanno dispiegato truppe nella zona cuscinetto e in una serie di aree che devono essere difese per garantire la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele”, ha reso noto un comunicato.

Carri armati e forze di fanteria si sono schierate sulla Linea Alpha, al confine tra Siria e Israele all’interno della zona smilitarizzata, per impedire ai ribelli siriani di entrarvi, per la prima volta da quando è stato firmato l’Accordo di disimpegno del 1974, che pose fine alla guerra dello Yom Kippur. ”

Le IDF hanno inoltre assunto il controllo del versante siriano del Monte Hermon, senza incontrare alcuna resistenza durante l’operazione condotta dalle forze speciali Shaldag dell’Aeronautica. “Sottolineiamo che le forze israeliane non interferiscono negli eventi interni in Siria”.

Nella messa a punto del piano per rovesciare Assad, la Turchia ha potuto godere con ogni probabilità di un ampio supporto statunitense: l’amministrazione Biden pare interessata non solo ad attuare ogni forma di destabilizzazione idonea a complicare la vita a Donald Trump ma anche a liquidare un grande alleato di Mosca e Teheran quale Bashar Assad.

Non a caso da tempo Washington aveva ammorbidito le sue posizioni nei confronti degli stretti rapporti di Ankara con Mosca, aprendo a forniture di armi fino a ieri negate ai turchi, come gli aerei F-16 Viper o forse addirittura gli F-35, accettando quindi che Ankara schieri missili da difesa aerea russi S-400.

 

Un “25 aprile” a Damasco

Ankara del resto sembra aver preparato il terreno all’offensiva dei ribelli infiltrando progressivamente i centri nevralgici del potere governativo e militare siriano, come dimostra l’assenza di resistenza dopo i primi giorni di guerra (nonostante il decreto di Bashar Assad che aumentava del 50 per cento le retribuzioni dei militari in servizio attivo) e soprattutto l’adesione al “nuovo corso” di molti funzionari, ministri e interi apparati dello stato siriano.

Fenomeni del resto già riscontrati nei giorni scorsi ad Hama e Homs. Questa mattina la tv di Stato siriana ha continuato brevemente i suoi programmi dopo la caduta di Assad, con il conduttore che ha invitato tutti i dipendenti dell’emittente a tornare al lavoro, aggiungendo che sono al sicuro. “Questa è Damasco, la capitale della Siria, dove le porte della libertà si sono aperte per la prima volta dopo molti anni. È un giorno storico nella storia moderna della Siria”, ha detto il conduttore questa mattina.

In seguito ha ospitato Anas Salkhadi, un comandante ribelle tra i combattenti che hanno preso d’assalto la capitale. Salkhadi ha assicurato che i ribelli proteggeranno le istituzioni statali. “Il nostro messaggio a tutta la Siria è che diciamo loro che la Siria è per tutti “non faremo quello che ha fatto la famiglia Assad”. Mentre Salkhadi parlava, l’audio è saltato e la trasmissione si è improvvisamente interrotta. Sullo schermo è apparso uno striscione rosso con una scritta in arabo: “La vittoria della grande rivoluzione siriana e la caduta del regime criminale di Assad”.

L’aspetto rilevante è che la TV di Stato è divenuta organo d’informazione dei ribelli in modo automatico, senza violenze e senza neppure cambiare i conduttori.

La redazione del quotidiano Al Watan, il principale organo di stampa del regime siriano, ha chiesto scusa per le bugie che ha dovuto raccontare. Si apre una “nuova pagina in Siria” si legge sull’account Facebook del giornale in cui si scusa dicendo che “i media e i giornalisti siriani non hanno la colpa” per le “bugie” che “loro” – in riferimento al governo – lo ha costretti a pubblicare. “Siamo di fronte a una nuova pagina per la Siria. Grazie a Dio non è’ stato versato più sangue”, si legge sul sito ufficiale “I media e i giornalisti siriani non hanno alcuna colpa.

Erano lì e noi eravamo con loro eseguendo le istruzioni e diffondendo le notizie che ci inviavano. E’ stato subito chiaro che erano bugie”, si legge ancora nella nota non firmata pubblicata dal giornale, “Possa Dio proteggere la Siria e il suo popolo”. Sia l’agenzia di stampa ufficiale siriana SANA che la televisione ufficiale siriana hanno interrotto i notiziari dalla mezzanotte ora italiana.

Mentre i ribelli penetravano nell’ambasciata italiana da poco riaperta a Damasco (dove pare abbiano solo preso tre auto) e saccheggiavano quella iraniana strappando i manifesti di Qassem Soleimani, ex comandante della forza Quds e di Hassan Nasrallah, nel governo siriano questa mattina era impossibile trovare uomini ancora fedeli al presidente Assad.

Ribelli ed esponenti degli apparati di sicurezza siriani si sono incontrati per evitare ulteriori scontri e vittime e garantire una transazione pacifica del potere. Secondo fonti di sicurezza a Damasco non ci sarebbero stati scontri tra i ribelli e le forze lealiste perché i vertici dell’Esercito e degli apparati di sicurezza sarebbero in contatto con i vertici di Hayat Tahrir al-Sham” proprio per evitare spargimenti di sangue.

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani i 12 giorni di offensiva dei ribelli hanno provocato la morte di almeno 900 persone: 138 civili, 380 soldati siriani e combattenti alleati e 392 ribelli.

Il premier siriano, Mohammed Ghazi al-Jalali, con alle spalle una lunga carriera ministeriale al fianco di Bashar Assad e dal settembre scorso nominato primo ministro, ha affermato che si è sentito con il leader del movimento siriano jihadista-salafita Hayat Tahrir al Sham e di aver concordato con lui sull’importanza di mantenere le istituzioni statali. Il premier siriano ha anche ribadito di essere pronto a collaborare con qualsiasi leadership che il popolo sceglierà.

Un video postato dai ribelli siriani ha però mostrato quello che viene definito l’arresto di al-Jalali proprio mentre si stava recando a un incontro in un hotel di Damasco. Il leader dei ribelli, Abu Mohammed al-Jolani, ha dichiarato che il premier al-Jalali sarebbe rimasto in carica per garantire la transizione dei poteri in Siria.

Anche il ministro del Turismo, Mohammad Rami Martini, che dal 2014 ricopre incarichi di governo ed era stato colpito dalle sanzioni della UE contro il regime, ha esortato i dipendenti a tornare al lavoro e a proteggere le strutture pubbliche, salutando un “nuovo giorno” per il popolo siriano. E’ quanto riporta al Jazeera a proposito di un messaggio condiviso sull’account Facebook ufficiale del Ministero del Turismo. Martini ha affermato che “questa è la volontà del popolo, e la volontà del popolo deve prevalere.”

Insomma, al momento pare evidente che il “25 aprile” siriano vede molti ex baathisti fedeli a Bashar Assad riciclarsi, o almeno cercare di farlo, nel nuovo regime i cui contorni sono al momento indefiniti ma che non è difficile immaginare risentiranno di una pesante influenza turca che, dopo aver cooptato molti dirigenti siriani, potrebbe oggi offrire ampie garanzie a tutti i protagonisti coinvolti nella crisi.

Un’ipotesi che emerge come credibile dalle scarse e caute valutazioni emerse dal mondo arabo e in particolare dalle monarchie del Golfo che pure avevano riammesso la Siria di Assad nella Lega Araba e avviato programmi di cooperazione economica volti ad avviare la ricostruzione post bellica.

Negli Emirati Arabi Uniti si è fatta sentire solo la voce di Anwar Gargash, consigliere dell’emiro, che intervenendo alla conferenza Manama Dialogue in corso in Bahrein. Ha auspicato “di vedere i siriani lavorare insieme e di non assistere ad altri episodi di caos”. Un appello a una “soluzione politica” che metta fine alle operazioni militari per evitare l’acuirsi e il dilagare di una “situazione pericolosa” è stato lanciato dai ministri degli Esteri dei Paesi arabi e del processo di Astana riuniti a Doha, in Qatar.

L’Arabia Saudita ha chiesto sforzi comuni per evitare che la Siria piombi nel caos. ”Il Regno afferma il suo sostegno al fraterno popolo siriano e alle sue scelte’ e ‘chiede sforzi comuni per preservare l’unità della Siria e la coesione del suo popolo, in modo da evitare che sprofondi nel caos e nella divisione”, ha dichiarato il ministero degli Esteri saudita in un comunicato.

I ministri di Qatar, Arabia Saudita, Giordania, Egitto Iraq, Iran, Turchia e un rappresentante della Federazione Russa hanno sottolineato, in una dichiarazione congiunta, che la crisi siriana costituisce uno “sviluppo pericoloso per la sicurezza del Paese e per la sicurezza regionale e internazionale”, che richiede che tutte le parti “si sforzino di trovare una soluzione politica che porti a fermare le operazioni militari e a proteggere i civili dalle ripercussioni”.

Di fatto quindi tutti sembrano aver sdoganato l’operazione portata a termine da Ankara in beve tempo e con un numero limitato di vittime e distruzioni e che potrebbe produrre benefici per tutti.

Ankara torna ad essere una potenza rilevante nel mondo arabo che fino a un secolo or sono dominava, Israele vede interrompersi la cosiddetta “Mezzaluna scita” indebolendo così la capacità iraniana di minacciare lo Stato Ebraico mentre Mosca potrebbe aver raggiunto un’intesa preventiva con Ankara circa il mantenimento, almeno a breve termine, delle sue basi militari in Siria.

 

Le incognite    

Donald Trump, nel suo primo mandato presidenziale, voleva ritirare le truppe statunitensi dalla Siria, un migliaio di uomini la cui presenza costituisce una forza d’occupazione in violazione del diritto internazionale. Venne dissuaso dal Pentagono ma ora che tornando alla Casa Bianca dovrà fare i conti col ritiro delle truppe dall’Iraq entro settembre 2025, potrebbe cogliere l’occasione di ritirare le tre basi dell’est (nella foto sotto) e da Al-Tanf, al confine giordano.

Del resto l’Amministrazione Biden nei giorni scorsi aveva autorizzato raid aerei contro milizie scite truppe governative siriane nell’area di Deir Ezzor ma potrebbe essere difficile per Washington mantenere basi e forze militari con un governo guidato da HTS, che risulta un movimento terroristico per USA e Unione Europea.

Secondo il New York Times negli ultimi giorni gli Stati Uniti avrebbero comunicato segretamente tramite Ankara con HTS per sincerarsi che la caduta di Assad non apra nuove opportunità alle milizie ello Stato Islamico ancora attive nella Siria Orientale. Diverse milizie siriane avrebbero assicurato – attraverso i turchi – di non avere intenzione di permettere all’ISIS di risorgere.

“Non dovrebbero esserci dubbi: non permetteremo all’Isis di ricostituirsi e di trarre vantaggio dall’attuale situazione in Siria”, ha affermato il generale Michael E. Kurilla, alla testa dello US Cemntral Command . “Tutte le organizzazioni presenti in Siria devono sapere che le riterremo responsabili se si associano a Daesh o lo sostengono in qualsiasi modo”.

Oggi Trump ha attribuito la fuga di Assad alla perdita del sostegno russo e alla debolezza di Russia e Iran ma un eventuale ritiro degli USA dalla Siria metterebbe nei guai soprattutto le milizie curde, dal 27 ottobre sotto attacco turco e delle milizie filo-Ankara al punto che i curdi costituiscono almeno un terzo dei circa 400 mila profughi determinati dall’offensiva dei ribelli iniziata il 27 novembre.

“Questo cambiamento offre l’occasione di costruire una nuova Siria basata sulla democrazia e la giustizia”, ha dichiarato Mazloum Abdi, comandante delle Forze Democratiche Siriane alludendo alla possibilità di “garantire i diritti di tutti i siriani. In Siria viviamo momenti storici assistendo alla caduta del regime autoritario a Damasco”, ha aggiunto.

Anche oggi però le fazioni siriane filo-turche hanno sferrato attacchi contro le Forze Democratiche Siriane (FDS), in realtà contro le milizie curde dell’YPG (nella foto sotto) per conquistare Manbij, situata a nord di Aleppo, città’ di circa 100 mila abitanti strategica per la sua vicinanza alla frontiera turca.

La caduta della città nelle mani dei ribelli e quindi di Ankara appare imminente e metterebbe in gravi difficoltà le forze curde in tutto il Rojava, la regione curda a cui Assad aveva riconosciuto l’autonomia.

I turchi stanno bombardando i posti di confine che le truppe siriane in ritirata hanno ceduto alle forze curde nella provincia nord-orientale siriana di Hasakah, da Qamishli fino ad Abu Rasin. In quell’area sono presenti anche forze russe, basate ad Al- Mabaqir, che hanno pattugliato l’area aiutando la riturata delle forze siriane secondo L’osservatorio siriano per i diritti umani.

Anche in base a queste informazioni, e alle relazioni tra Russia e Turchia, appare difficile credere che Mosca sia stata colta di sorpresa dagli eventi siriani, specie dopo le ultime dichiarazioni di Erdogan. “In questo momento, tra i leader nel mondo già sono rimaste solo due persone. Una sono io, l’altra è (il presidente russo) Vladimir Putin”, ha affermato questa sera il presidente turco durante un discorso ieri sera a Gaziantep, città turca vicino al confine con la Siria, trasmesso da Anadolu.

La Turchia ha colto però l’opportunità di ammonire nuovamente gli Stati Uniti. In un colloquio telefonico tra il ministro della Difesa turco Yasar Guler la controparte americana Lloyd Austin, Guler ha chiesto a Washington di tagliare i ponti con i curdi dell’YPG, considerata terroristi da Ankara alla stregua del PKK iracheno.

Non ci sarebbe da stupirsi se i curdi dovessero pagare ancora una volta il prezzo dei bruschi scossoni geopolitici in Medio Oriente.

Incognite invece per Israele, come dimostrano le posizioni avanzate acquisite dalle IDF nella regione del Golan e del Monte Hermon mentre la diffidenza dello Stato ebraico nei confronti di HTS sembra confermata dal raid aereo di oggi che a Damasco avrebbe colpito un deposito di munizioni vicino all’aeroporto che secondo i media israeliani aveva l’obiettivo di impedire ai miliziani di impossessarsene.

Del resto tra le diverse milizie jihadiste siriane che hanno oggi vinto la guerra ci sono anche quelle legate alla Fratellanza Musulmana, lo stesso movimento ideologico di Hamas. Per il ministro della Difesa israeliano Israel Katz la caduta del regime di Bashar Assad ha inferto ”un duro colpo all’asse del male iraniano”.

Per la Turchia come per tutti resta poi l’incognita della deriva che potrebbe prendere HTS e tutta la galassia delle milizie jihadiste che hanno rovesciato Assad e che molti, in Europa come negli Stati Uniti, si affannano a definire, non senza sprezzo del ridicolo, “ex terroristi” o “jihadisti moderati”.

Come è già accaduto in passato, chiunque aizzi le insurrezioni jihadiste rischia poi di incontrare molte difficoltà a controllarle.

Valutazioni che in Italia ha ben sintetizzato Giovanni Barbera, membro del comitato politico nazionale di Rifondazione Comunista, che ha ricordato come il leader fondamentalista degli insorti siriani, Abu Mohammed al-Jolani è stato un esponente di primo piano di al-Qaeda “sulla cui testa dovrebbe pendere ancora una taglia di 10 milioni di dollari a suo tempo istituita dagli stessi Stati Uniti”. Al-Jolani, in una intervista televisiva rilasciata nel 2014, affermò che la Siria avrebbe dovuto essere governata secondo la legge islamica e che le minoranze del Paese, cristiani e alawiti, non sarebbero state accolte.

Solo il tempo dirà se i nuovi “padroni” della Siria saranno in grado di assicurarne la stabilità. Mentre l’Europa si distingue, come spesso accade, per la sua assenza anche nello scenario siriano, l’Italia, unica nazione occidentale ad aver riaperto l’ambasciata a Damasco, vede oggi ancor più giustificato il timore che dalla Siria possano muovere nuove ondate migratorie attraverso il Mediterraneo.

@GianandreaGaian

Foto: SANA, SAA, Ministero Difesa Russo, Reuters e Anadolu

 

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Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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