Se la propaganda UE/NATO non convince più neppure Zelensky
“Ci stanno mettendo alla prova e il resto del mondo sta guardando. No, non siamo in guerra, ma di certo non siamo neanche in pace. Voglio essere chiaro: non c’è una minaccia militare imminente per i nostri alleati strategici, perché la NATO si è trasformata per tenerci al sicuro. La spesa per la difesa è aumentata. L’innovazione è accelerata. Abbiamo più forze a maggiore prontezza. Con tutto questo, la nostra deterrenza è buona per ora ma è il domani che mi preoccupa. È tempo di passare a una mentalità da tempo di guerra e di dare una spinta alla nostra difesa, produzione e spesa per la difesa.”
Le parole del segretario generale della NATO, Mark Rutte, al convegno organizzato il 13 dicembre a Bruxelles da Carnegie Europe, ripetono gli stessi concetti espressi ormai da un paio d’anni dal suo predecessore Lens Stoltenberg, da generali, primi ministri, commissari Ue e ministri di Esteri e Difesa di nazioni aderenti a NATO ed Unione Europea.
Come Stoltenberg, anche Rutte travalica però i limiti del suo incarico: in quanto segretario generale dovrebbe parlare in termini condivisi da tutti i 32 membri dell’Alleanza Atlantica (come ha fatto notare anche il generale Leonardo Tricarico su “Il Tempo” del 18 dicembre), non fare da traino alle pressioni di uno o di un gruppo di stati membri facendosi portavoce delle loro istanze, neppure se tali pressioni vengono esercitate dai due “maggiori azionisti” della NATO o dei loro più zelanti vassalli.
Niente di nuovo quindi anche se le esortazioni bellicose e belliciste sembrano un po’ confuse e, col passare del tempo, sempre più sbiadite e sempre meno credibili e sostenibili. Per Rutte “la spesa per la difesa è aumentata” ma “deve essere maggiore al 2 per cento del Pil per assicurarsi la pace”. Affermazione che non è però in grado di dimostrare: può forse garantirci che spendendo il 3% o il 4% o ancora di più del PIL per la Difesa avremmo la pace?
Non è il caso di riflettere sul fatto che averla o meno non dipenderà solo da quanto spendiamo per la Difesa ma anche dalle decisioni politiche e strategiche che prenderemo?
Anche volendoci imporre di credere che UE e NATO siano in grado di assumere decisioni che non siano solo quelle dettate dall’Amministrazione Biden, l’affidabilità delle affermazioni di Rutte rischia di rivelarsi pari a quella di coloro che sostenevano nel 2022 che le nostre sanzioni stavano mettendo in ginocchio l’economia e la macchina bellica russa (Mario Draghi) o che i russi rubavano le schede elettroniche dagli elettrodomestici nelle case dell’Ucraina occupata per metterle nei loro armamenti (Ursula von der Leyen).
In realtà dall’inizio del conflitto molti premier, ministri e leader europei hanno sostenuto con determinazione e sicumera la validità delle decisioni assunte negli Stati Uniti e recepite quasi ovunque “senza se e senza ma” in ambito NATO e UE, inclusa la “madre di tutte le fake news” e cioè che la guerra dovesse continuare perché avrebbe logorato la Russia.
Sbandierata da statunitensi e britannici per impedire a Kiev di chiudere il conflitto con la mediazione turca dopo appena due mesi di guerra, tale affermazione si è rivelata del tutto fuori luogo, almeno osservando quel che accade oggi sui campi di battaglia. Certo la Russia sarà stata logorata dal conflitto che però sta annientando l’Ucraina e mettendo in ginocchio l’Europa.
Contesto che non sembra influenzare Rutte che continua a ripetere la solita trita e ritrita narrazione mutuata dal suo predecessore. Forse memore delle innumerevoli notizie diffuse da “fonti d’intelligence” (riversate a ondate su media poco avvezzi a porsi domande) circa le innumerevoli malattie che stavano consumando la salute di Vladimir Putin, l’attuale segretario generale della NATO si è persino improvvisato veggente affermando che “tra quattro o cinque anni la nostra capacità di deterrenza sarà indebolita a tal punto che i russi potrebbero iniziare a pensare di attaccarci”.
La nostra deterrenza si è indebolita Perché abbiamo cominciato a sfidare la Russia nel 2008 quando il summit NATO di Bucarest annunciò l’invito a Ucraina e Georgia a entrare nell’alleanza senza però cominciare a prepararci a un confronto militare con Mosca.
Più recentemente è stata minata a causa delle armi, munizioni e miliardi buttati al vento donandoli all’Ucraina senza ottenere nessun successo decisivo, mentre inflazione e alti costi energetici hanno fatto impennare i prezzi di materie prime, acciaio e quindi anche di armi e munizioni, vanificando così anche i recenti incrementi nelle spese per la Difesa.
Se davvero i russi penseranno forse di attaccarci tra 4 o 5 anni, questo significa che ci attaccheranno tra 6 o 7 oppure 8 anni?
Sulla tempistica dell’attacco russo all’Europa le valutazioni, tutte autorevoli, si sprecano.
Per il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius i russi ci attaccheranno entro il 2029 ma a Berlino l’intelligence ritiene invece che lo faranno entro tre anni, esattamente le stesse stime dei vertici della Difesa norvegese e di alcuni generali britannici mentre in tutta Europa diversi esponenti politici e militari hanno fornito ipotesi temporali variegate che avevano in comune solo la certezza granitica che i russi ci attaccheranno.
Una sfida alla NATO mica da poco per l’esercito russo che, come assicurava l’intelligence britannico meno di due anni or sono, combatte con i badili per mancanza di munizioni.
Appare chiaro che la propaganda (la nostra, non quella russa) andrebbe strutturata in maniera organica e coordinata. Non si può continuare a lanciare l’allarme per la minaccia di invasione russa raccontando allo stesso tempo a ogni occasione delle spaventose perdite russe, che secondo gli ucraini in questa guerra avrebbero superato i 750 mila morti e feriti mentre la NATO riferisce di circa 700.000 (numero citato anche da Donald Trump) che crescono però al ritmo di 1.500 al giorno.
NATO e UE dovrebbero cessare di “dare i numeri”, accreditando quelli della propaganda di Kiev, oppure smettere di parlare di minaccia di invasione poiché appare evidente che se i russi hanno subito e stanno subendo oggi perdite di tale entità non potranno certo impegnarsi domani e per molti anni in una guerra contro la NATO per la conquista dell’Europa.
Del resto, da quando è iniziato il conflitto in Ucraina vengono diffuse notizie, quasi sempre attribuite a fonti d’intelligence per assicurarne la credibilità, che in realtà vengono divulgate nell’ambito di Psy-Ops e Info-Ops, cioè di operazioni tese a influenzare l’opinione pubblica (la nostra, cioè noi) offrendo percezioni positive sull’andamento del conflitto e negative sulle condizioni del “nemico”.
Dal momento che tali informazioni si sono rivelate molto spesso inattendibili (nonostante gli aiuti militari occidentali gli ucraini perdono terreno invece di riconquistarne, le truppe russe conquistano un centro abitato dopo l’altro pur se privi di munizioni e Putin è sopravvissuto con evidente successo alle numerose malattie attribuitegli, tutte mortali), a risultare compromessa agli occhi del pubblico non è solo la credibilità dei decisori politici e degli strumenti di propaganda ma anche quella dei servizi d’intelligence, “bruciati” inopinatamente per offrire una parvenza di credibilità a una narrazione propagandistica debole.
Crollo di credibilità
Molto debole, come dimostrano anche le affermazioni di Rutte che alla necessità di maggiori investimenti finanziari nella Difesa abbina quella di più truppe. “C’è un problema con il numero di soldati attualmente disponibili” perché mentre “marine e aeronautiche vanno bene, serve più personale negli eserciti”, anche se sulle ricette per arruolare più militari Rutte ha precisato che è “una decisione nazionale“.
Il segretario generale non ha voluto entrare nel tema del ripristino o meno della leva obbligatoria, in valutazione in diverse nazioni per compensare il cronico e crescente tracollo di arruolamenti volontari, ma che nessuna forza politica vuole prendersi la responsabilità di adottare, consapevole del prezzo da pagare in termini di consensi popolari.
A ben guardare l’affermazione di Rutte circa gli organici da rimpolpare appare discutibile tenendo conto che in caso di guerra occorrerebbero non solo più fanti ma anche più piloti e tecnici nell’aeronautica mentre già oggi molte forze navali NATO devono radiare anticipatamente o tenere “in naftalina” navi da guerra per carenza di equipaggi.
Certo in guerra gli eserciti subirebbero perdite maggiori ma Rutte dovrebbe sapere che da circa dieci anni in tutto l’Occidente si registra la fuga dall’uniforme del personale in servizio mentre sempre meno reclute vengono arruolate.
Un fenomeno ingigantitosi con la guerra in Ucraina, in parte per i rischi intrinsechi connessi col vestire l’uniforme durante una guerra e in parte perché presso l’opinione pubblica, in Europa e in tutto l’Occidente, pochi comprendono il senso di una guerra contro la Russia e in pochissimi percepiscono la minaccia dell’invasione russa.
Timore che smuove qualche atavica e comprensibile paura in Polonia e Repubbliche Baltiche, forse anche in Finlandia, ma non certo in molte altre nazioni europee e non certo in misura significativa.
Società e opinione pubblica sembrano infatti respingere i proclami e la chiamata alle armi di premier, ministri, generali e del presidente von der Leyen, come dimostrano anche le elezioni in Francia, in alcuni lander della Germania, in Austria, Slovacchia, Romania e come confermano le profonde crisi politiche a Parigi, Berlino e anche a Londra, dove il governo laburista insediatosi in luglio è già in affanno.
Inoltre le difficoltà economiche generate dalla contrapposizione con la Russia, propulsore energetico dell’Europa, rendono difficile attuare reali e rilevanti incrementi delle spese per la Difesa come dimostra il caso della Gran Bretagna che nel 2025 vedrà sensibilmente ridotte, non aumentate, le sue capacità militari con la radiazione di 5 navi e di decine di droni ed elicotteri.
Quali invasori?
Il 58° Rapporto CENSIS “La società italiana al 2024” rileva che il 71,4% degli italiani ritiene che l’Unione europea è destinata a sfasciarsi senza riforme radicali, il 68,5% valuta che le democrazie liberali non funzionino più e il 66,3% attribuisce all’Occidente (Stati Uniti in testa) la colpa dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente.
Infatti solo il 31,6% si dice d’accordo con il richiamo della NATO sull’aumento delle spese militari fino al 2% del PIL, figuriamoci oltre….
Più che dalla “minaccia russa”, la società italiana sembra più sensibile a ciò che mette in discussione o in pericolo la propria identità, e cioè una ben diversa “invasione”.
Il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico, il 38,3% degli italiani si sente minacciato dall’ingresso nel Paese dei migranti, il 21,8% da chi professa una religione diversa, il 21,5% da chi appartiene a una etnia diversa, il 14,5% in chi ha un diverso colore della pelle.
Facile trarre dai dati del CENSIS conclusioni semplicistiche circa l’influenza del “populismo” o della “disinformazione russa”, come va tanto di moda fare oggi. Più utile e onesto sarebbe invece cercare di trarre indicazioni pragmatiche anche se impietose nei confronti di chi in questi anni ha tenuto le redini di NATO, UE e di molte nazioni europee.
Alla canna del gas
Indicazioni anche di tipo economico, considerato l’impatto sull’Europa del conflitto ucraino e soprattutto della postura assunta nei confronti di Mosca che tra caro energia e sanzioni-boomerang hanno messo KO l’industria europea.
In Italia il CENSIS ha reso noto che gli investimenti esteri sono scesi da 21,8 miliardi nel primo semestre del 2023 ad appena 8 nei primi sei mesi di quest’anno mentre l’ISTAT ha certificato il ventunesimo mese consecutivo di calo della produzione industriale: dato che non è difficile mettere in relazione con la crisi energetica determinata dalla guerra in Ucraina in corso da 28 mesi.
In Europa il 10 dicembre il direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), Fatih Birol, ha confermato quello che tutti gli analisti avevano previsto nella primavera 2022: l’industria europea sta perdendo competitività perché penalizzata da prezzi dell’energia molto più alti che altrove.
“Il prezzo del gas naturale in Europa è cinque volte superiore a quello degli Stati Uniti e il prezzo dell’elettricità in Europa è tre volte superiore a quello della Cina“, ha osservato Birol. “Come possono i produttori europei, soprattutto quelli per i quali il costo dell’energia rappresenta una parte significativa dei loro costi complessivi, competere con gli altri paesi?
In Germania, dove Volskwagen e Thyssen Krupp chiudono stabilimenti e licenziano migliaia di lavoratori, l’industria siderurgica, già in difficoltà, ha ricevuto meno ordinativi nel terzo trimestre rispetto ai tre mesi precedenti e anche allo scorso anno, come ha riferito l’Ufficio federale di statistica Destatis che ne attribuisce la responsabilità al forte aumento dei prezzi dell’energia a seguito della guerra in Ucraina.
Coloro che hanno guidato in questi anni NATO e UE sono tra i diretti responsabili del disastro che sta colpendo l’Europa e non dovrebbe sorprendere se l’opinione pubblica non accetta che siano sempre loro a dettare oggi improbabili soluzioni.
I leader occidentali hanno la grave la responsabilità di aver sostenuto, come si è fatto finora in tutti i consessi UE e NATO, la necessità di aiutare militarmente Kiev “fino alla vittoria” invece di indurla a negoziare quando era meno debole risparmiando così’ molte vite, o semplicemente non impedendole di firmare l’accordo mediato dalla Turchia nell’aprile 2022. Al netto della propaganda appare infatti sempre più chiaro che l’Ucraina sia stata considerata sacrificabile per conseguire l’obiettivo di logorare la Russia.
Il 18 dicembre però (colpo di scena!) il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj durante una videoconferenza con i lettori del quotidiano Le Parisien, ha cancellato in poche righe anni di retorica propagandistica USA, NATO e UE ammettendo che “de facto, questi territori, (Donbass e Crimea) sono oggi controllati dai russi. Non abbiamo la forza di riconquistarli. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin al tavolo dei negoziati”.
Zelensky spesso ha rilasciato dichiarazioni di tenore opposto da un giorno all’altro, ma sembrerebbe che a Kiev abbiano cominciato a guardare in faccia una realtà che peraltro era già nitida (per chi voleva vederla) più di un anno or sono, quando la controffensiva ucraina del giugno-novembre 2023 si rivelò un fallimento con un risultato emblematico: in sei mesi i russi avevano guadagnato più territorio degli ucraini.
E la tanto sbandierata vittoria? E’ stata sostituita dalla “pace giusta”! Cioè forse più o meno un pareggio? Neppure Zelensky, dopo avercene raccontate tante, sembra credere più alla propaganda UE e NATO.
Foto: NATO, Commissione Europea, UK Defense Intelligence, Ministero Difesa Russo e Ministero Difesa Ucraino
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.