Il dibattito NATO sulle spese per la Difesa verso (e oltre?) il 3 per cento del PIL

 

L’11 dicembre scorso il Financial Times ha pubblicato un articolo con una serie di indiscrezioni che, se confermate, appaiono destinate a cambiare in maniera importante lo scenario sul fronte della spesa militare nei Paesi della NATO.

Il quotidiano Britannico ha riferito che con la riunione informale a livello di Ministri degli Esteri dell’Alleanza avvenuta ai primi di dicembre scorso sarebbe già partita una riflessione sull’innalzamento dell’attuale target del 2% (rapporto in percentuale tra le spese per la Difesa e il PIL) non più ritenuto adeguato al nuovo contesto venutosi a creare.

Tale parametro nacque in occasione del summit NATO di Riga del 2006. Per quanto non menzionato nel comunicato finale, il tema trovò comunque spazio nella conferenza stampa che concluse il summit. La formula non parlava di un impegno formale/stringente bensì di uno più informale: i Paesi membri si impegnavano cioè a lavorare per raggiungere il 2 per cento del PIL assegnato alle spese per la Difesa. Lo scopo era chiaramente quello di porre un freno alla diminuzione dei bilanci della Difesa, che in quel periodo stava cominciando ad accelerare, invertendo la tendenza.

Di lì a poco scoppiò la crisi finanziaria mondiale (2007) alla quale seguì una profonda crisi economica altrettanto globale (2008): complice poi una situazione complessiva relativamente tranquilla (minaccia terroristica a parte) per molti Paesi diventò davvero difficile seguire le indicazioni venute da Riga. Con il risultato che i bilanci della Difesa continuano rimanere stagnanti o più spesso, in calo.

Tutto questo fino al 2014, vero e proprio anno di svolta a causa dell’invasione del nord dell’Iraq da parte dello Stato Islamico (ISIS) e dello scoppio del conflitto nel Donbass ucraino e dell’annessione russa della Crimea.

Questi due eventi indussero la NATO a imprimere una svolta. In occasione del summit del settembre 2014 in Galles vengono così fissati una serie di paletti: chi si trova ancora sotto il 2% (all’epoca tutti, tranne USA, Regno Unito e Grecia) doveva arrestare qualsiasi ulteriore calo della spesa per la Difesa, puntare ad aumentarla  in termini reali per arrivare al 2% entro un decennio.

Negli anni immediatamente successivi la reazione dei Paesi membri non fu così pronta e solo dal 2020 si registrò una certa accelerazione che, inevitabilmente, si è fatta più pronunciata dal 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina.

Oggi, a 10 anni di distanza da quel summit in Galles, sono diventati 23 (su 32) i Paesi che raggiungono e superano questo 2%; con qualcun altro destinato ad aggiungersi nei prossimi anni.

 

Verso nuovi livelli di spesa

Secondo il Financial Times si punterebbe oggi alla definizione di un percorso che nel breve termine dovrebbe portare a un nuovo obbiettivo di spesa al 2,5%, tetto tuttavia solo temporaneo perché il vero traguardo finale sarebbe il 3%, da raggiungere a partire dal 2030, da annunciare al summit NATO del prossimo giugno a L’Aja, in Olanda.

Nessuno ha commentato la notizia diffusa dal quotidiano britannico anche se lo stesso Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, ha lasciato intendere che una riflessione in merito c’è davvero. Certi invece i 2 principali “driver” di questa rinnovata spinta.

Il primo è rappresentato dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Già in occasione del suo primo mandato, la pressione esercitata sugli altri membri dell’Alleanza Atlantica affinché rispettassero gli impegni presi in materia di spesa militare era stata piuttosto forte.

Ora tutto lascia intendere che le cose non cambieranno con questo suo secondo mandato. Anzi, come dimostrano le sue dichiarazioni a dir poco minacciose rilasciate ancora poche settimane fa e le ulteriori (nonché dirompenti) indiscrezioni rilanciate sempre dal Financial Times, che vedrebbero lo stesso Trump pronto a fissare l’asticella addirittura al 5%, salvo poi abbassare le proprie pretese al 3,5% ma solo in cambio di condizioni più favorevoli (agli USA) sul fronte del commercio tra le due sponde dell’Atlantico.

E per chi avesse avuto dei dubbi sulla sue reali intenzioni, a chiarirle ha provveduto lo stesso Trump che in una conferenza stampa del 7 gennaio scorso ha esplicitato esattamente questa richiesta. Se da una parte le ragioni degli USA quando si lamentano dell’impegno dei Paesi europei non sono certo infondate, dall’altra è evidente che quella fornita da Washington corre il rischio di diventare una rappresentazione molto parziale della realtà.

Intanto perché gli stessi Stati Uniti stanno conoscendo da anni una costante diminuzione in termini reali dei fondi per la Difesa che riescono a conservare livelli di poco superiori al 3% con una crescente difficoltà. Poi c’è il fatto che la quota del loro bilancio direttamente dedicata alla difesa dell’Europa è in realtà bassa anche perché impegnati su molti altri fronti. Infine, le iniziative di Trump sembrano anche un tentativo di forzare la mano agli alleati europei per esercitare su di essi pressioni ad acquistare più armamenti “made in USA”.

Il secondo driver, non meno evidente o importante, è rappresentato dalla oggettiva necessità di ricostruire strumenti militari davvero robusti, efficaci ed efficienti.

La lunga stagione dei “dividendi della pace” seguita alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica si è conclusa definitivamente il 24 febbraio 2022 con tutto ciò che ne è seguito riportando alla ribalta la guerra ad alta intensità che sembrava scomparsa dai nostri orizzonti, riportando in auge concetti che sembravano dimenticati.

Quello della massa, cioè della quantità di militari, armamenti e munizioni, seguito dalla necessità di far fronte a minacce già note ma non adeguatamente affrontate quali la difesa missilistica (amplificata anche dagli avvenimenti in Medio Oriente) e la comparsa di minacce nuove che stanno cambiando i campi di battaglia come nel caso della enorme proliferazione di “droni” in tutte le loro forme.

Il contrasto con la Russia, la grave crisi in Medio Oriente in atto da oltre un anno e che sta cambiando profondamente l’assetto di quella regione, il confuso e conflittuale teatro africano e la regione dell’Indo-Pacifico caratterizzata dalla crescente assertività della Cina, costituiscono le sfide più rilevanti.

Senza dimenticare il moltiplicarsi di pericolosi attori non statuali e le minacce non convenzionali. Elementi che confermano quanto l’esigenza di aumentare le risorse per il potenziamento, ammodernamento e rinnovamento delle Forze Armate sia assolutamente reale.

 

 Quanto è realistico il livello del 3 per cento?

La NATO ha cominciato a predisporre report periodici sulla spesa militare dei Paese membri negli anni ‘60 del secolo scorso: dapprima in maniera più sporadica e poi via via più omogenea/strutturata (quindi, più affidabile) a partire dal decennio successivo. Quello da analizzare diventa quindi un intervallo temporale tra gli anni ‘70 e oggi di oltre 50 anni.

Per quanto riguarda la stretta attualità, si osserva che l’ultimo report a oggi disponibile risale al 17 giugno scorso e comprende i dati (sia pure ancora provvisori) per il 2024. Dal suo esame si evince che già oggi la media nella NATO è del 2,71%, evidentemente non lontana proprio dal 3%. Una distanza dunque modesta, che sarà anche sicuramente ridotta con l’arrivo dei dati definitivi.

Questo nonostante ci sia un gruppo di 7 Paesi (tra cui l’Italia) che contribuisce ad abbassare tale media, con percentuali intorno all’1,5% o ancora inferiori. Ma non è tutto, perché mano a mano che cominciano ad affluire i dati del 2025 emerge con chiarezza che quest’ anno sarà contrassegnato da un passo in avanti ulteriore, con la soglia quindi del 3% ancora più vicina e con il numero di Paesi che già la raggiungono o la superano destinato ad aumentare oltre i 5 attuali.

In questo senso, si ricordi che la media delle spese militari rispetto al PIL negli anni ’70 era del 4,6% e negli anni ’80 addirittura saliva fino al 4,8%. In quel decennio Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia spendevano circa il doppio (sempre rispetto al PIL) di quanto facciano oggi.

Negli anni ’90, già post-Guerra Fredda, quella percentuale era comunque ancora del 3,1% mentre è dai primi anni 2000 che il calo si fa più marcato, con il valore medio nell’Alleanza Atlantica che raggiunge il minimo del 2,4% nel 2017.

Certo, si potrà obiettare che la NATO di allora era diversa da quella di oggi (14 Paesi negli anni ‘70, gradualmente aumentati fino agli attuali 32), così come si potrà obiettare che nel tempo sono in parte cambiati alcuni criteri di classificazione delle spese militari stesse, rendendo in parte discutibili simili confronti.

Eppure, il dato rimane: ci sono stati periodi, neanche lontanissimi, nei quali la spesa era significativamente più elevata di oggi e di quanto si ipotizza potrà diventare domani. Quindi in generale il livello del 3% appare realistico al contrario di quello del 5%, forse neppure necessario soprattutto se si riuscisse a spendere meglio.

 

L’Italia

Prima di poter avviare qualsiasi seria discussione circa cosa farà o potrà fare l’Italia sul tema delle spese per la Difesa, non si può fare a meno di chiedere ancora una volta e prima di tutto una maggiore trasparenza in merito.

Il riferimento è al fatto che il bilancio della Difesa del nostro Paese, così come presentato al Parlamento attraverso il Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa o DPP (alla bisogna, anche integrato da altri documenti ancora), è oggettivamente ricco di informazioni ed è anche assolutamente trasparente per quanto riguarda l’entità degli stanziamenti nonché la loro destinazione.

Il punto però è che il formato delle spese per la Difesa in esso contenuto differisce da quello considerato dalla NATO e, per questa ragione, si rendono necessarie alcune operazioni mirate a uniformare il tutto; operazioni che danno così origine a quello che viene poi definito il “Bilancio integrato della Difesa in chiave NATO”.

Ebbene, fino al 2021 il DPP illustrava (sia pure in maniera sintetica) questi stessi passaggi, collegandoli a loro volta a delle cifre. In questo modo era quindi possibile farsi un’idea sufficientemente precisa del quadro d’insieme. A partire dal DPP dell’anno successivo questo minimo dettaglio è invece venuto meno e, contestualmente, si è osservata anche una improvvisa (nonché anomala) impennata delle spese militari così come trasmesse alla NATO.

Giusto per fornire qualche riferimento attuale, dei 31.957 milioni di euro comunicati dal nostro Paese all’Alleanza Atlantica per il 2024, alla fine emerge che circa 4.500 milioni di essi non sono “tracciabili”; almeno non nel caso in cui si faccia riferimento proprio a quegli elementi noti fino al 2021. E anche considerando stime più alte alla voce della spesa pensionistica, che pare essere l’elemento di discrimine all’interno di questa discussione, il delta in questione scende a una cifra comunque non modesta e cioè circa 2.500 milioni, di nuovo non “tracciabili”.

A complicare le cose, un autentico balletto di percentuali; dato che quello stesso report NATO associa ai 31.957 milioni di euro una percentuale dell’1,49% del PIL. E questo mentre il Ministro della Difesa in una recente audizione Parlamentare ha riferito invece, senza fornire ulteriori spiegazioni, di un valore dell’1,54%.

Ecco dunque che provare a fare analisi e previsioni diventa davvero difficile. Con tutte le approssimazioni del caso si può provare comunque a formulare qualche ipotesi. A grandi linee, per raggiungere quel 2% che è ancora oggi il parametro in essere, servirebbero circa 9,5 miliardi aggiuntivi. Se invece il nuovo riferimento diventasse davvero il 3%, i miliardi in più necessari sarebbero addirittura oltre 30; altrimenti detto, ciò significherebbe quasi raddoppiare l’attuale livello di spesa.

A puro titolo informativo se si proponesse un obiettivo del 5% la spesa per la Difesa ai valori attuali dovrebbe raggiungere circa 105 miliardi di euro l’anno. Anche nel caso dell’Italia una rapida analisi storica fornisce indicazioni interessanti. Sempre con riferimento ai report NATO, si scopre che negli anni ’70 l’Italia destinava alla propria Difesa in media oltre il 2,6% del PIL (con punte del 3% nella prima metà di quel periodo!).

Già nel decennio successivo quella media scese ma restò comunque intorno al 2,2%. E infine, nonostante la fine della Guerra Fredda, negli anni ’90 riuscì a conservare la soglia del 2%. Sarà poi a partire dai primi anni 2000 che invece il calo si è accentuato fino a raggiungere il minimo storico nel 2015 con l’1,07% del PIL.

Certo, l’Italia di oggi è molto diversa da quella di 40 o 50 anni or sono, quindi va riconosciuto che il raggiungimento di certi obiettivi è oggettivamente molto arduo non solo per le condizioni di finanza pubblica.

Una parte della politica usa l’argomento delle spese militari in maniera differente a seconda delle situazioni, con una parte del mondo dell’informazione mediamente poco attento ai temi della Difesa in generale e con una buona parte dell’opinione pubblica che rimane distante da questi stessi temi.

Dunque, il vero “vulnus” resta culturale oltre che finanziario. La spesa pubblica in Italia supera i 1.100 miliardi di euro e, per quanto vi siano diversi altri elementi/vincoli da tenere in considerazione, immaginare di riuscire a recuperare qualche miliardo per la spesa per la Difesa non appare poi impossibile.

Ipotizzando che non vi siano tali margini occorre pensare a strumenti straordinari, tutti da ricercare in Europa. E qui viene subito in mente la proposta di escludere dal calcolo del deficit ai fini del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) l’intera spesa per la Difesa. Tesi caldeggiata, come noto, dal Ministro della Difesa Guido Crosetto e a sua volta rilanciata anche dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che però poi l’ha affiancata anche alla seconda proposta maggiormente discussa e cioè i cosiddetti “Eurobond per la Difesa” (di fatto, una replica del Next Generation EU ma dedicato al settore Difesa).

Per quanto le due strade non siano tecnicamente incompatibili fra loro, appare evidente che alla fine difficilmente potranno essere percorse entrambe.

L’esclusione delle spese per la Difesa dal PSC (peraltro già oggi concessa, sia pure in maniera molto ridotta) consentirebbe una maggiore libertà di scelta per i singoli Paesi, pagata però comunque da un aumento del debito e con nessuno stimolo a favore di una più marcata integrazione in ambito Europeo.

Peraltro, già la formula di una totale esclusione di tali spese (sia quelle correnti che quelle in conto capitale) appare di per sé fragile e richiederebbe tempi lunghi per l’espletamento dei vari passaggi necessari per le modifiche al PSC. Invece l’emissione di “Eurobond”, soprattutto se legati a precisi vincoli finalizzati a una più forte/strutturata integrazione sempre a livello europeo, garantirebbe non solo un minor peso per i singoli Stati ma anche uno strumento potenzialmente utile per una migliore efficienza della spesa.

Del resto anche le altre ipotesi di cui si sta discutendo vanno esattamente in quest’ultima direzione: dall’incremento dei fondi iscritti direttamente nel bilancio dell’Unione Europea, al riutilizzo di una parte dei fondi di coesione, passando per la ridefinizione del ruolo del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) sempre per la possibile erogazione di prestiti agevolati, fino alla creazione di un cosiddetto “Special Purpose Vehicle” e cioè di un fondo extra-bilancio UE dedicato sempre alla Difesa ed eventualmente aperto anche a Paesi Europei non facenti dell’Unione.

Insomma, un vero e proprio “cantiere aperto” con molte opzioni a disposizione. Oltre al tema della quantità dei fondi destinati alla Difesa c’è anche un tema della qualità. valido però anche per l’Europa, caratterizzata dalle ancora troppe sovrapposizioni e da troppi particolarismi, con una base industriale troppo frammentata e con troppo poca attenzione per la ricerca tecnologica.

Anche per l’Italia la questione è cruciale, sia perché le nostre esigenze in termini di sicurezza/difesa si sono fatte più stringenti, sia perché la pressione sul tema del rispetto degli impegni in ambito internazionale si farà sempre più forte.

Foto: Difesa.it e Luca Peruzzi

 

Giovanni MartinelliVedi tutti gli articoli

Giovanni Martinelli è nato a Milano nel 1968 ma risiede a Viareggio dove si diplomato presso l’Istituto Tecnico Nautico per poi lavorare in un cantiere navale. Collabora con Analisi Difesa dal 2002 occupandosi di temi navali in generale e delle politiche di Difesa del nostro Paese in particolare. Fino al 2009 ha collaborato con la webzine Pagine di Difesa.

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