Siria e Iraq: raid "sparsi" e nessuna azione di terra

di Alberto Negri da Il Sole 24 Ore del 17/11/15

Raid aerei contro Raqqa, capitale del Califfato, e le basi dell’Isis: sarà questa l’unica risposta sul piano militare e politico alla strage di Parigi? Molto dipenderà dall’obiettivo strategico che può essere limitato a una spedizione punitiva contro lo Stato Islamico, oppure allargato a quello, assai più ambizioso, di abbatterlo: ma una decisione di questo genere non è soltanto militare e della coalizione internazionale, ma viene determinata da una possibile intesa sul piano diplomatico su cosa si vuole fare del futuro della Siria e dell’Iraq.

Muovere subito truppe di terra, uno scenario di cui al G-20 ufficialmente non si è parlato, non sembra nelle intenzioni dei francesi e neppure degli americani che finora hanno accuratamente evitato i ”boots on the ground”, persino in Iraq dove il governo a maggioranza sciita ha da tempo perso il controllo di città strategiche come Mosul, Ramadi e Falluja.

Un’eventualità di questo genere – l’invio di un contingente militare – potrebbe verificarsi soltanto se ci fosse un altro devastante attentato in Europa.

È assai più probabile che la coalizione, di cui fa parte anche l’Italia, decida di intensificare l’addestramento dei curdi di Massud Barzani e di quell’esercito nazionale iracheno che si sfaldò nel 2014 davanti all’offensiva del Califfato.

Gli altri stivali sul terreno che combattono l’Isis in Siria sono i curdi siriani, l’esercito di Assad, i Pasdaran iraniani e gli Hezbollah libanesi, che dopo l’attentato nei loro quartieri di Beirut hanno il dente avvelenato e lottano per la sopravvivenza. In Iraq ad affrontare i jihadisti sono rimasti i curdi del Nord e gli iraniani, che con le loro milizie difendono il governo di Baghdad a maggioranza sciita ma anche l’antemurale alla penetrazione di radicali sunniti nel territorio di Teheran.

Questa dentro l’Islam è una battaglia di confini terrestri, religiosi, per le risorse, petrolifere e idriche, e anche psicologica con forti implicazioni politiche sul futuro delle frontiere del Medio Oriente.Sradicare il Califfato anche soltanto sul piano militare, senza affrontare le questioni politiche, è una questione complicata, se non impossibile, per questo la diplomazia e il dialogo tra Obama e Putin avrà un ruolo essenziale.

Lo Stato Islamico non vale tanto per quello che è quanto per come viene percepito e usato dalle potenze locali, regionali e globali. Una percezione che dopo l’intervento della Russia è certamente cambiata anche per gli americani che fino a questo momento hanno esitato a condurre questa guerra. L’Isil è stato ed è ancora uno strumento geopolitico: i turchi lo utilizzano per la loro “profondità strategica” contro i curdi, gli iraniani per giustificare la loro presenza militare, le monarchie arabe sunnite per fare una guerra per procura contro Teheran.

Quanto agli occidentali, sbagliate le previsioni sulla caduta di Assad, si trovano con degli stati disgregati, che tracimano profughi, e la necessità di bilanciare la loro posizione tra sciiti e sunniti. Ognuno degli attori regionali ha in mano buone armi: la Turchia può ricattare l’Europa sui profughi, l’Iran dopo l’accordo sul nucleare e l’alleanza con Mosca si sente più forte, le monarchie sunnite del Golfo detengono ancora il 50% delle riserve energetiche mondiali e l’equivalente del 35-40% degli asset finanziari dei fondi sovrani internazionali. I raid aerei possono indebolire l’Isis ma per batterlo sul terreno bisogna andare in battaglia e affrontare milizie temprate dalla lotta e anche ben armate: Mosul, città di quasi due milioni di abitanti, è completamente minata e disseminata di sniper.

Inoltre ogni mossa militare ne implica una politica: l’offensiva contro una roccaforte come Mosul, dove Abu Baqr Al Baghadi nel giugno 2014 annunciò la nascita del Califfato, non può essere affidata solo alle milizie sciite perché sicuramente non verrebbe vista di buon occhio dai sunniti.Con Abu Baqr al Baghdadi il Califfato ha sfruttato appieno il caos in Mesopotamia saldando la guerra civile siriana a quella irachena. Ma le vere cause delle rivolte sunnite, la corruzione del governo sciita iracheno, e la morsa dittatoriale di Assad in Siria, devono essere affrontate per avere anche una sistemazione politica. Per questo la soluzione militare non basta.

Lo si è capito bene anche al tavolo di Vienna sulla Siria: Assad potrebbe anche lasciare il potere entro un anno e mezzo ma serve anche presentare al negoziato un’opposizione siriana credibile.

E poi c’è una considerazione più ampia e profonda: dopo l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia, gli interventi occidentali sono visti con grande diffidenza perché, nonostante le buone intenzioni, quasi mai portano qualche cosa di buono agli arabi e ai musulmani. Una lezione del passato recente che nessuno ha dimenticato.

Foto AP,  Reuters, Sputnik e Aeronautica Russa

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