Espugnata Ramadi, nuovo proclama del Califfo

Dopo 7 mesi l’esercito iracheno ha lavato l’onta subita nel maggio scorso riconquistando Ramadi, capoluogo della provincia di al-Anbar.
Si tratta di uno dei più importanti successi sul campo degli ultimi mesi nella lotta contro il Califfato e di una vittoria strategica per la riconquista della provincia di al-Anbar, la più estesa dell’Iraq, confinante con Siria, Giordania e Arabia Saudita.

I miliziani dell’Isis hanno abbandonato le loro ultime postazioni nell’ex sede del governo locale, nel settore occidentale dell’abitato, e quando le forze governative hanno completamente circondato l’edificio non hanno incontrato nessuna resistenza. I portavoce militari sono stati concordi nel riferire che i combattenti di Daesh sono fuggiti in massa per sottrarsi all’offensiva finale che non avrebbe lasciato loro scampo.

Prima di entrare nella roccaforte dello Stato Islamico, difesa a quanto pare da 200 jihadisti, i militari hanno bonificato l’area da mine, bombe e trappole esplosive disseminate a difesa dell’ultimo bastione. In quella zona è stata anche ripresa la casa, occupata dai jihadisti, del capo della tribù filo governativa locale degli al-Dalim, lo sceicco Mayed Abderaseq al Salman.
Questi combattimenti si sono conclusi con la morte di 16 miliziani dell’Isis. “Tutti i combattenti di Daesh se ne sono andati. Non c’è più resistenza”, ha detto il portavoce delle forze irachene antiterrorismo Sabah al-Numan.

Con l’aiuto dei raid aerei della coalizione internazionale, che sono proseguiti anche ieri con 28 incursioni nei cieli dell’Iraq (il giorno di Natale ne vennero effettuate 17 su Iraq e Siria, il 26 dicembre 33 di cui 28 in Iraq) incluse missioni mirate anche su Ramadi, l’esercito iracheno era entrato martedì nella città penetrando fino al centro.

I jihadisti, che avevano conquistato Ramadi nel maggio scorso, si erano arroccati nei quartieri occidentali, facendo dell’ex sede del governo la loro roccaforte. Dopo giorni di aspri combattimenti, i miliziani del califfo sono scappati e hanno rinunciato a dare battaglia.

Con la riconquista di Ramadi, a 100 chilometri da Baghdad, l’esercito iracheno riscatta l’umiliante sconfitta del giugno del 2014, quando l’avanzata dell’Isis aveva messo in fuga le truppe da vaste regioni del Paese.
Poche le informazioni ufficiai sulle perdite irachene: una ventina di militari sarebbero caduti e un centinaio sarebbero rimasti feriti. Tra le file dei jihadisti si conterebbero oltre 50 morti nelle sole ultime 48 ore. Secondo testimoni, durante i combattimenti gli islamisti hanno utilizzato civili come scudi umani per coprirsi la fuga dalla città mentre due kamikaze alla guida di due autobombe hanno colpito un gruppo di militari impegnati nelle operazioni di bonifica dei quartieri del capoluogo.

Malgrado la dichiarazione di vittoria, il capo delle operazioni militari ad al-Anbar – il generale Ismal al Mahlawi – ha affermato che i miliziani dell’Isis, pur se in ripiegamento, controllano ancora parti della città.

Rovesci per lo Stato Islamico anche in Siria dove la coalizione arabo-curda delle Forze Democratiche Siriane (FDS) ha conquistato una diga strategica dell’Eufrate, nel nord della Siria.

L’Isis aveva assunto il controllo della diga Tishreen nel 2014,dopo averla strappata ad altri gruppi ribelli, tra i quali Ahrar al Sham,
La diga è strategica perché fornisce elettricità a vaste regioni della provincia di Aleppo.

Il portavoce delle FDS, il colonnello Talal Sello, ha precisato che “gli scontri proseguono nella zona in cui si trovano gli alloggi dei dipendenti, intorno alla diga”.

Abbiamo liberato la regione “a est della diga”, ha inoltre indicato il portavoce di questa coalizione, formata principalmente dalle Unità di protezione popolare (YPG) curde e da combattenti arabi sunniti.

L’ufficiale ha riferito che la conquista della diga contribuisce a isolare le basi dei jihadisti a nord di Aleppo dalla loro ‘capitale’, Raqqa, a est dell’Eufrate, che si trova ad appena una ventina di chilometri dalla diga.

L’operazione per liberare la diga è stata condotta nella notte di sabato da migliaia di militari delle Forze democratiche della Siria, sostenute dai raid aerei americani.
In Siria sono in difficoltà anche le altre forze ribelli opposte al regime di Bashar Assad. Gli insorti di diversi gruppi stanno evacuando le città di Zabadani,  al confine con il Libano, per raggiungere l’aeroporto do Beirut e da lì riparare in Turchia con la collaborazione della Croce Rossa Internazionale.

L’area di Zabadani è stata al centro di una prolungata offensiva delle milizie sciite libanesi Hezbollah e dell’esercito siriano contro i gruppi ribelli. Si tratta di un’area strategica per Assad perla sua vicinanza a Damasco e al confine libanese.

A inizio dicembre c’era già stato un altro accordo simile che aveva permesso a decine di ribelli di lasciare l’ultimo quartiere di Homs che controllavano portandosi via le loro armi, nell’ambito di un cessate il fuoco a livello locale.

Un’intesa simile è stata raggiunta  con la mediazione dell’Onu, per consentire a circa duemila jihadisti, compresi militanti dell’Isis e qaedisti del Fronte al-Nusra, di essere evacuati dal campo profughi palestinese di Yarmuk, in un sobborgo a sud di Damasco, dove si trovano assediati dalle truppe governative. I miliziani verranno trasferiti in aree sotto il contro dei rispettivi gruppi di appartenenza.

Nella periferia di Damasco il 26 dicembre è stato ucciso da un raid aereo Zahran Alloush, uno dei capi della ribellione siriana, leader del movimento Jaysh al-Islam.
I ribelli siriani hanno attribuito  il bombardamento ai russi, anche se l’esercito di Damasco ne ha rivendicato la paternità.

Fonti ribelli hanno detto che gli aerei russi (che negli ultimi tre giorni hanno effettuato 156 missioni colpendo 556 obiettivi)hanno sparato almeno 10 missili contro il quartier generale segreto del gruppo, che può contare tra i 15mila e i 20mila uomini.

Il gruppo ha già nominato il suo successore, lo sceicco Abu Haman Esam Albuidani, che diventa così il nuovo comandante generale. L’eliminazione del leader islamista, nemico del presidente Bashar al-Assad ma anche dell’Isis, arriva in un momento delicatissimo per il processo di pace, fin qui abortito, ma a cui la risoluzione dell’Onu ha dato nuovo impulso. Ed è destinata a complicare il rebus su chi deve sedersi al tavolo del negoziato con il regime.
Zahran Alloush era figlio di un noto predicatore salafita che adesso vive a Riad; seguendo le orme paterne, aveva fatto studi religiosi tanto in Siria che in Arabia Saudita. Mantenendo forti legami con Riad, cominciata la rivolta era diventato il capo di Jaysh al-Islam, che dal 2013 ha il controllo di vaste aree alla periferia di Damasco, tra cui Ghouta Orientale, a lungo assediata dalle truppe di Assad.

E se nei primi video di propaganda mostrava atteggiamenti  fondamentalisti, chiedendo l’espulsione dalla Siria degli sciiti e alawiti (la minoranza a cui appartiene Assad), ultimamente aveva mostrato un volto più moderato; e in una recente intervista aveva definito gli alawiti “parte del popolo siriano”.

Jaish al-Islam è finito spesso nel mirino delle organizzazioni a tutela dei diritti umani: nel mese di luglio, in un video aveva giustiziato 18 uomini dell’Isis, imitando le raccapriccianti modalità del gruppo; e a novembre, secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, aveva rinchiuso decine di “scudi umani”  dentro gabbie metalliche, per “prevenire i bombardamenti del regime” su Ghouta orientale.

Jaysh al-Islam ha però partecipato all’inizio di dicembre alla riunione organizzata dall’Arabia Saudita perché l’opposizione siriana trovasse una posizione comune per negoziare con Assad. Scontri durissimi tra esercito siriano e al-Nusra si segnalano anche nel settore di Aleppo, dove il 26 dicembre sarebbero morti 70 combattenti: 38  miliziani e 33 militari secondo l’Osservatorio per i diritti umani in Siria. Aspri combattimenti anche nella vicina Khan Tuman, roccaforte islamista caduta il 20 dicembre scorso.

La provincia di Aleppo è nel settore orientale sotto il controllo dell’Isis e in quello occidentale di al-Nusra, una divisione che si riproduce anche nel capoluogo dove entrambe le milizie fanno i conti con una pesante offensiva governativa sostenuta dai cacciabombardieri russi.

In questo contesto il capo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, è tornato a farsi vivo dopo sette mesi in un messaggio audio in cui ha assicurato che i raid aerei russi e dell’alleanza guidata dagli Usa contro le postazioni jihadiste non hanno indebolito i suoi uomini e ha minacciato Israele. “Siate fiduciosi che Allah concederà la vittoria a quanti lo pregano, e ricevete la buona notizia che il nostro Stato se la sta cavando bene.

Più è intensa la guerra che gli viene mossa, più diventa puro e forte”, ha affermato il Califfo in un messaggio di 24 minuti a lui attribuito da un account Twitter normalmente usato per i comunicati del gruppo jihadista.

Al-Baghdadi ha anche minacciato di attaccare Israele, raramente nel mirino dei proclami del Califfato, e di eliminare tutti gli ebrei: “La Palestina sarà il vostro cimitero”, ha affermato in un messaggio audio. “Allah vi ha riuniti in Palestina in modo che i musulmani possano uccidervi”, ha aggiunto il leader dell’Isis.

“Con l’aiuto di Allah, siamo sempre più vicini, giorno dopo giorno”, ha proclamato, “gli israeliani ci vedranno presto in Palestina, questa non é più una guerra dei crociati contro di noi, il mondo intero ci sta combattendo”. “Gli israeliani pensavano che ci fossimo dimenticati della Palestina, che ci avessero distolto, ma non è vero, non abbiamo dimenticato la Palestina neppure per un istante”, ha insistito il leader dell’Isis.

Il messaggio non è datato, ma condanna il tentativo dell’Arabia Saudita di formare una coalizione di 34 Paesi musulmani per combattere l’Isis e quindi non può essere anteriore al 15 dicembre.

“Se fosse una coalizione musulmana”, ha affermato al-Baghdadi, “si sarebbe affrancata dai suoi padroni ebrei e crociati e assunto come obiettivo quello di uccidere gli ebrei e di liberare la Palestina e avrebbe portato aiuti al popolo siriano”. Poi l’appello al popolo saudita perché “si ribelli ai tiranni apostati e vendichino la loro gente in Siria, Iraq e Yemen”.

Foto: AFP, DPA; Reuters, AP, Getty Images, Stato Islamico, Esercito Iracheno.

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