Le cause del dietro front di Roma in Libia
da Il Mattino del 12 marzo 2016
Menio di due settimane or sono Roma sembrava pronta ad assumere il ruolo guida di una missione di stabilizzazione della Libia che avrebbe avuto l’imprimatur dell’Onu e il placet degli alleati statunitensi ed europei.
Da alcuni giorni però non si contano le dichiarazioni ufficiali dei massimi vertici governativi e istituzionali che negano ogni ipotesi di intervento militare sulla ex “quarta sponda”, definito oggi “un’ avventura militare” assimilata addirittura allo “sbarco in Normandia”.
E’ vero che l’Italia ha sempre respinto le richieste di Washington per un impegno bellico contro lo Stato Islamico (in Iraq come in Libia) ma da molti mesi il ministro Paolo Gentiloni non faceva che ripetere la pretesa italiana di guidare la missione internazionale in Libia.
Sono molte le ragioni che hanno indotto il governo italiano a un repentino dietro-front, forse solo in attesa di circostanze più favorevoli, anche se è apparso quanto meno goffo il tentativo dei vertici governativi e militari di attribuire ai giornalisti “irresponsabili accelerazioni” e la responsabilità di aver dato per imminente l’avvio di una missione militare che, peraltro, aveva già persino il nome: Libyan International Assistance Mission (LIAM),
Innanzitutto il governo si è reso (finalmente) conto che l’esecutivo di unità nazionale libico è abortito prima ancora di nascere. Non ha ancora ottenuto la fiducia del parlamento di Tobruk e le milizie islamiste che controllano Tripoli non intendono farlo insediare nella capitale. Questo significa il fallimento della debole e ben poco credibile mediazione dell’Onu.
Se anche dovesse in futuro ottenere un riconoscimento anche simbolico, l’esecutivo di Fayez al-Sarraj non avrà mai la credibilità necessario a chiedere un intervento internazionale.
Che peraltro nessuna fazione libica vuole dal momento che sia Tobruk che Tripoli chiedono armi, addestramento e appoggio aereo per combattere lo Stato Islamico ma non truppe straniere sul terreno.
Alcune fonti evidenziano inoltre che il supporto militare segreto (ma rivelato da molti media) fornito da Francia, Gran Bretagna ed Egitto alle truppe di Tobruk e la presenza di forze speciali o contractors anglo-americani in appoggio alle milizie di Misurata hanno rafforzato gli schieramenti tribali favorendo l’emarginazione del nuovo governo. Così i nostri “alleati” cercano di tagliare fuori l’Italia, che ha puntato tutto su al-Sarraj, dal futuro della Libia.
Il limite di non condurre azioni belliche contro lo Stato Islamico rafforza il rischio di emarginazione dell’Italia specie ora che le solite indiscrezioni dei media statunitensi rivelano i piani del Pentagono per condurre una campagna aerea contro circa 40 obbiettivi dell’IS in Libia.
Una riedizione ad ancor più bassa intensità delle blande operazioni della Coalizione in Iraq e Siria. Blitz che sul fronte libico potrebbero mettere imbarazzo Roma se ci fosse la richiesta di utilizzare basi italiane per jet e droni.
Le estenuanti (e umilianti) pressioni esercitate nelle ultime settimane dagli Stati Uniti per indurre l’Italia ad assumere un ruolo bellico non solo non hanno dato risultati apprezzabili ma hanno toccato il nervo scoperto della nostra limitata sovranità nazionale inducendo il governo Renzi a mettersi sulla difensiva.
Oggi sembra essere più chiara la percezione che schierare truppe in Libia significa soprattutto esporle a miliziani e kamikaze jihadisti con la consapevolezza che statunitensi, britannici e francesi continueranno a fare la loro guerra parallela tesa a sostenere fazioni da cui si aspettano in seguito ritorni economici o strategici.
Anche la pessima figura rimediata nella vicenda dei quattro ostaggi della Bonatti ha contribuito a raffreddare gli ardori interventisti.
Soprattutto nell’indegno tira e molla sulla consegna, cinque giorni dopo la loro morte, delle salme di Salvatore Failla e Fausto Piano, sui quali era già stata effettuata l’autopsia.
Una vicenda in cui il governo di Tripoli ha umiliato l’Italia, vendicandosi forse per il mancato riconoscimento che da tempo chiede a Roma, ma che indica come la nostra influenza e presenza in termini d’intelligence sia ormai al lumicino.
Se poi a questa serie di elementi si aggiungono sondaggi che, a pochi mesi dalle elezioni amministrative, rivelano come 8 italiani su 10 siano contrari a un impegno militare in Libia, ben si comprendono le ragioni della profonda “rivalutazione” della carte che l’Italia è in grado di giocare nella crisi libica.
Foto: Stato Islamico, Ansa, AP, AFP e Reuters
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.