Il fallimento di Minsk 2 e la guerra ibrida in Ucraina
Dopo quasi due anni dallo scoppio delle ostilità in Ucraina, le prospettive di ricomposizione del conflitto nelle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk rimangono incerte.
Il numero ingente di vittime del conflitto, assieme alla mancata implementazione degli accordi di Minsk II, permettono ormai di parlare di un conflitto a bassa intensità, che a lungo termine potrebbe trasformarsi in un conflitto congelato, simile a quello che si svolge nel vicinato russo in Transnistria, Abkhazia e Nagorno Karabakh.
Sono oltre 9.000 le persone uccise dall’inizio del conflitto nell’Est dell’Ucraina, da aprile 2014, secondo un bilancio pubblicato dalle Nazioni Unite a dicembre 2015. Nel mese di febbraio 2016 vi sono stati almeno una quindicina di morti, e 11 solo nella prima settimana di marzo, mentre i distretti di Donetsk e Lugansk rimangono strettamente sotto il controllo dei separatisti filorussi.
Nel Donbass e a Lugansk le elezioni – che già a ottobre erano state rimandate – avrebbero dovuto tenersi il mese scorso, ma ancora non hanno avuto luogo. Alla base c’è chiaramente un “palleggio di responsabilità”: secondo i separatisti Kiev non avrebbe approvato lo schema dell’autonomia, il governo ucraino dall’altra parte rinfaccia che il confine orientale con la Russia è ancora controllato dai separatisti e non dal governo centrale.
Il 3 marzo scorso i ministri degli esteri di Russia, Ucraina, Germania e Francia a Parigi hanno raggiunto un accordo per tenere a fine luglio le elezioni nell’est dell’Ucraina. Tuttavia, l’incontro non è servito a chiarire il quadro della sicurezza nell’area interessata.
Il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha lasciato la riunione prima della sua fine, dichiarando poi che le posizioni negoziali erano lontane. Se un’interruzione dei colloqui potrebbe verosimilmente portare alla temuta possibilità di un attacco militare destinato a creare un corridoio tra la Russia e la Crimea, l’incontro di Parigi è un’ennesima farsa che non pone soluzioni alla guerra ibrida.
Alla base della situazione di stallo vi sono vari elementi che concorrono a rendere il quadro piuttosto fosco. Gli ultimi fatti vanno letti alla luce del piano di riarmo su larga scala che la Russia sta applicando con l’intento di modernizzare il 70 per cento dei propri equipaggiamenti militari entro il 2020.
Anche l’annuncio inaspettato del parziale disimpegno delle forze russe in Siria (circa 30 aerei da combattimento ed un piccolo contingente di terra oltre a consiglieri militari) acquista un diverso significato.
Mentre diversi analisti sostengono che potrebbe trattarsi di una mossa tattica per condizionare i colloqui di pace appena ricominciati a Ginevra, ci si potrebbe chiedere quali sono le intenzioni relative al piano di riarmo di Mosca.
Poco più di un anno dopo gli accordi di Minsk II, il territorio controllato dai filorussi sarebbe cresciuto e nessuna delle misure di sicurezza previste sarebbe stata implementata, come sottolinea Holoxj Haran – Professore di politica comparata all’Università di Kyv- Mohyla in Ucraina – in un recente convegno tenuto presso l’Università di Friburgo in Svizzera.
L’immediato e completo cessate il fuoco nei rispettivi distretti delle regioni di Donetsk e Lugansk, previsto dalla clausola n.1 per il 15 febbraio 2015, non è stato attuato: gli scontri sarebbero continuati per altri quattro giorni, per poi sfociare in un conflitto a bassa intensità o guerra ibrida. Evidentemente, un vero cessate il fuoco non è mai stato raggiunto.
Il ritiro delle truppe da entrambe le parti per creare una zona di sicurezza (50 chilometri nel caso di sistemi di artiglieria del calibro di oltre 100 millimetri e più di 140 chilometri per i lanciarazzi campali) sarebbe dovuto avvenire entro il secondo giorno e terminare entro 14 giorni.
Ciò significa che tutte le armi pesanti avrebbero dovuto essere smantellate, ma questa opzione appare oggi ben lontana dalla realtà.
Al punto n. 6 gli accordi di Minsk II prevedono anche la liberazione e lo scambio di tutti i prigionieri e delle persone detenute illegalmente in base al principio “all for all”, entro cinque giorni dal cessate il fuoco. Ovviamente, in mancanza di un vero e proprio cessate il fuoco anche questa clausola non è stata rispettata dalle parti.
In mancanza della restaurazione del controllo del confine da parte dell’Ucraina, è evidente che anche le clausole politiche, che negli accordi di Minsk sono mescolate alle misure di sicurezza, non hanno potuto essere attuate: così restano lettera morta il punto n. 11 relativo alla realizzazione della riforma costituzionale in Ucraina e il punto n. 12 relativo alle elezioni da tenersi nel rispetto degli standard OSCE da discutere e concordare con i rappresentanti delle diverse regioni di Donetsk e di Lugansk, nel contesto di un gruppo di contatto trilaterale.
Per l’Ucraina il punto focale sta nella clausola di sicurezza n. 10, che prevede il ritiro delle unità militari di altri Paesi, tecnologie e mercenari dal territorio ucraino, sotto la supervisione dell’OSCE. L’ambiguità della formula e la mancanza di una connessione cronologica con le altre clausole rendono ancora più difficile l’implementazione dei punti n.1, 2 e 6.
Se secondo una visione forse ancora troppo ottimistica di Germania e Francia le elezioni nelle aree occupate dovrebbero tenersi in estate 2016, l’implementazione delle clausole politiche da parte dell’Ucraina rimane delicata nel momento in cui esistono ancora larghe parti del paese non controllate da alcuno stato se non la Russia.
Anche se la Russia non controlla l’intero territorio del Donbass, come si tende a credere erroneamente dalle notizie riportate dalla stampa, ma solo un terzo, chiaramente non è possibile tenere libere elezioni degne di questo nome in un territorio occupato.
Le violazioni degli accordi di Minsk, perpetrate da entrambe le parti, sono numerose e costanti, pur in assenza di una massive escalation.
Questa non è però da escludere: nell’ultima settimana, tuttavia, le forze di sicurezza ucraine hanno raddoppiato i bombardamenti nel territorio della Repubblica Popolare di Lugansk, sparando in un solo giorno contro le posizioni delle milizie LNR 68 granate, mentre a sua volta l’esercito ucraino ha denunciato 71 bombardamenti dalle milizie nel Donbass.
Dal punto di vista dell’Ucraina, come sottolinea Holoxj Haran, la soluzione più opportuna sarebbe rinegoziare gli accordi. In effetti, secondo il direttore del Centro di politica contemporanea Alexey Chesnakov, un rappresentante dell’Ucraina avrebbe “apertamente svelato i piani di Kiev” per sabotare l’attuazione degli accordi di Minsk a inizio anno.
Minsk II non risponderebbe infatti alla reali esigenze del Paese, né della messa in sicurezza del conflitto, ma più che altro all’opportunismo o al fair play delle diplomazie occidentali, nonché a quelle della Russia.
Da febbraio 2015, più di 600 soldati ucraini sarebbero morti sul fronte, mentre l’OSCE si guarda bene da attribuire la responsabilità della violazione del cessate il fuoco all’una o all’altra parte.
Le perdite di ribelli sono classificate come “segreto della difesa”.
Il 2 ottobre Hollande e Merkel annunciavano un accordo per il ritiro dei gruppi armati illegali, da attuarsi però in concomitanza alla restituzione all’Ucraina del controllo della frontiera russo – ucraina.
Se le clausole di sicurezza e politiche di Minsk II rimangono inosservate, è anche leggendo le note (abolizione dell’imposizione di sanzioni, prosecuzione e discriminazione delle persone coinvolte negli eventi accaduti nelle repubbliche di Donetsk e Lugansk, partecipazione degli organi dell’amministrazione locale alla nomina dei capi delle procure e dei tribunali nelle regioni particolari delle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, obbligo per le autorità centrali di promuovere la collaborazione delle repubbliche di Donetsk e Lugansk con le regioni russe) che può spiegarsi il rifiuto russo della possibilità di riscrivere gli accordi.
Ciò è stato confermato a fine gennaio dal ministro degli Esteri russo, il quale spiega peraltro che dei compromessi sono necessari su “come implementare ciò che è stato scritto a Minsk”.
Mentre l’esercito dell’Ucraina continua a dislocare nei pressi della linea di separazione i mezzi pesanti, la Russia ha un “vantaggio strategico comparato” in Ucraina, in virtù non solo della formulazione ambigua del punto n.10 e delle note degli accordi di Minsk II, ma anche dell’asimmetria militare: già qualche mese fa è stata evidenziata dagli osservatori internazionali la presenza del sistema TOS-1 (nella foto a lato), lanciarazzi multipli di produzione russa, in mano ai separatisti.
Il quartetto composto da Russia, Ucraina, Germania e Francia aveva consensualmente concordato di estendere la validità degli accordi di Minsk per il 2016, ma dopo l’ultima escalation di violenza di questo mese, essi sembrano ormai morti, se già non lo erano prima.
I sempre più frequenti bombardamenti da parte delle forze di sicurezza ucraine indicano, secondo una dichiarazione del vice comandante dello stato maggiore delle milizie della Repubblica Popolare di Donetsk di fine 2015, che Kiev non sta implementando gli accordi di Minsk e non controlla le sue forze armate, oltre ad esser segno della volontà di interrompere il processo di ritiro dei mortai previsto a breve.
Tuttavia, mentre la violazione degli accordi di Minsk è in corso da entrambe le parti, è evidente che l’attuazione delle clausole politiche è di fatto subordinata all’attuazione della clausole di sicurezza, ossia al cessate il fuoco completo ed al controllo da parte di Kiev sul confine di stato russo- ucraino.
La soluzione migliore secondo diversi analisti potrebbe essere quella di congelare la situazione al fine di concentrarsi sull’attuazione delle riforme politiche interne in Ucraina, tenendo conto che la strategia perseguita da Mosca non sarebbe quella di creare una Novorusija, bensì di lasciare la situazione irrisolta, non solo in Ucraina, ma anche lungo la frontiera NATO e nell’intero vicinato russo.
In questo senso, lo spostamento del confine non sarebbe l’obiettivo finale dell’attuale strategia russa : esso sarebbe solo un mezzo per far gradualmente accettare all’Occidente la plausibilità di tale opzione e l’interesse a mantenere la situazione in Ucraina nell’impasse si situerebbe in questa logica.
Non sarebbe insomma una logica di potenza ma una logica di debolezza, forse nell’attesa del completamento del piano di riarmo massiccio per il 2020. A conferma di ciò vi è il Fragile State Index che nel 2015 pone la Russia, quanto a fragilità, ben prima dell’Ucraina, e anche della Georgia, Azerbaijan, Bielorussia, Moldavia, Armenia e Kazakhstan.
Mentre la diplomazia occidentale esprime una certa inquietudine nei confronti dell’Ucraina, in particolare per l’incapacità del presidente ucraino di far adottare uno statuto speciale per le regioni del Donbass sotto controllo separatista, tanto che recentemente un diplomatico francese ha stimato che “la fatica nei confronti della questione ucraina potrebbe trasformarsi in fatica nei confronti del partner ucraino giudicato non affidabile”, è probabile che le elezioni possano essere ancora boicottate.
A caratterizzare il conflitto come guerra ibrida è tanto lo stallo in cui si trova il governo ucraino, quanto le strategie messe in piedi dalla Russia, che uniscono metodi militari tradizionali ad azioni come cyber-attacchi, disinformazione e tagli nelle forniture di gas.
Nel Donbass i russi continuano a spedire le armi più moderne, sistemi antiaerei e jammers. Nel corso del mese di febbraio si sono registrate anche diverse esercitazioni delle forze armate russe nel territorio.
Gli accordi di Minsk II restano un accordo politico, provvisorio e contraddittorio. Il fatto che politica e sicurezza vengano poste sullo stesso piano e intrecciate, genera confusione in merito all’individuazione della responsabilità delle parti ed alle priorità della diplomazia occidentale.
Di fatto l’Ucraina rimane esposta alla minaccia di un’escalation militare in qualsiasi momento, visto che l’OSCE non può impedire alla Russia di rifornire i ribelli di logistica, armamenti sofisticati e quant’altro.
Ricordiamo che in settembre 2015, i leader dell’Alleanza Atlantica avevano approvato la formazione di una nuova forza di risposta rapida per contrastare eventuali minacce ad alleati, con la previsione di basi nei paesi baltici, in Polonia e Romania.
Tuttavia, ricorda l’ex Maresciallo della Camera dei deputati in Polonia Radoslaw Sikorski, intervenuto nel recente convegno “Living in Difficult Neighborhoods” in Svizzera, fino a due anni fa non si vedeva la presenza di un solo soldato alleato in uno dei “nuovi” membri della NATO che fanno parte dell’Alleanza anche da 12 anni o più.
Se l’annuncio NATO avviene molti mesi dopo le evidenti violazioni delle clausole di Minsk II, alla lentezza occidentale fa da contropiede la prontezza di Mosca: 7.500 militari russi sarebbero già presenti nel Donbass, mentre il Cremlino ha annunciato a inizio anno la creazione di quattro nuove divisioni nello sforzo di accrescere le forze armate per rispondere all’intensificazione delle esercitazioni degli stati membri della NATO, qualificate come vera e propria minaccia alla sicurezza russa.
Così, anche alla luce del nuovo piano di riarmo russo, il ritiro “delle armi pesanti”, “delle unità militari e delle tecnologie” dal Donbass – dove né la polizia ucraina né l’OSCE sono in grado di garantire la sicurezza – risulta sempre meno credibile e il congelamento del conflitto possibile solo a fronte dell’instaurazione di una sfera di influenza russa, sempre più assertiva e regolata in maniera ibrida dal diritto internazionale.
Evidentemente, la diplomazia non è in grado di raggiungere gli obiettivi che sono stati posti a Minsk a causa dell’erosione graduale di soluzioni preventivamente negoziate e dei parametri condivisi tra le parti.
La strategia del conflitto congelato utilizzata dalla Russia dovrebbe pertanto trovar eco in una maggiore capacità della diplomazia occidentale di distinguere la dimensione militare e della sicurezza in generale da quella della politica, il cui intreccio è una delle cause principali del fallimento degli accordi di Minsk II.
Foto: AP, Reuters, AFP, RT, Valentina Cominetti ed Eliseo Bertolasi
Sigrid LipottVedi tutti gli articoli
Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.