Se l’F-35 diventa “di pace”
La lunga diatriba sull’acquisizione dei cacciabombardieri F-35 potrebbe concludersi in modo originale e inaspettato. L’Italia infatti acquisterà il jet di Lockheed Martin ma doterà Aeronautica e Marina di una versione specifica che verrà denominata F-35P dove la “P” sta ovviamente per “Pace”. Non si tratta di un incredibile scoop di Analisi Difesa ma di una notizia che si evince dall’intervista rilasciata il 23 maggio al quotidiano Il Messaggero dal ministro della Difesa, Mario Mauro. “Credo che siamo tutti quanti d’accordo nel riconoscere che il valore più importante che condividiamo nella nostra civile convivenza sia la pace. Sistemi di difesa avanzati, come l’F35, servono per fare la pace” ha detto Mauro. Una rivelazione davvero illuminante che induce a chiedersi dove avessero la testa coloro che hanno denominato quel velivolo Joint Strike Fighter, usando quindi termini quali “Strike” e “Fighter” che certo mal si addicono a un portatore di pace quale sarà l’F-35.
In attesa di conoscere quante tonnellate di ramoscelli d’ulivo o giocattoli o caramelle potrà imbarcare nella sua capace stiva il rivoluzionario F-35P ci permettiamo di consigliare ad Aeronautica e Marina di tinteggiare in modo adeguato i velivoli con livree consone ai compiti da espletare, con i colori della bandiera della pace oppure con sfondo verde prato con margherite e colombe.
Ironia a parte, il ministro ha aggiunto che “se vogliamo la pace, dobbiamo dunque possedere dei sistemi di difesa che ci consentano di neutralizzare i pericoli che possono insorgere in conflitti che magari sono distanti migliaia di chilometri da casa nostra ma che hanno le capacità di coinvolgere il mondo intero e di determinare lutti e povertà. Ora, l’utilizzo di strumenti complessi come gli F35 si giustifica in una visione integrata delle esigenze di sicurezza da parte di attori della comunità internazionale che, attraverso l’esercizio della potestà della difesa, garantiscono la pace per tutti”.
Mauro è riuscito a parlare di un bombardiere concepito per l’attacco preventivo, o meglio per il “first strike” (anche nucleare) sul territorio nemico nel quale dovrebbe penetrare invisibile ai radar, senza mai usare parole che potrebbero far pensare alla guerra. Uno sforzo lessicale teso a cancellare ogni forma di trasparenza che fa sorridere tenuto conto che pure i bambini sanno che il JSF rimpiazzerà Tornado, Harrier e Amx, guarda caso gli stessi jet che hanno lanciato oltre 700 bombe e missili sulla Libia più molte altre in passato su Kosovo, Bosnia, Iraq e più recentemente sull’Afghanistan. Non sarebbe stato più serio e trasparente affermare che quei velivoli ci servono per bombardare il nemico insieme ai nostri alleati, o meglio bombardare quei nemici che la “comunità internazionale” ci indicherà? Forse no perché a ben riflettere i libici che bombardammo nel 2011 non erano nostri nemici ma bensì alleati ai quali eravamo legati persino da un trattato militare. E poi il termine “nemico” indica inequivocabilmente la guerra che la nostra Costituzione ripudia almeno parzialmente: per questo l’abbiamo ribattezzata “missione di pace”.
Cercare di spacciare l’acquisto degli F-35 con la “necessità di avere mezzi efficienti di altissimo livello che servono a garantire la pace, ad evitare effetti collaterali” come ha ribadito il ministro della Difesa a Uno Mattina è tendenzioso e fuorviante sia perché i danni collaterali i nostri piloti sono riusciti a evitarli (o a limitarli) anche senza gli F-35, sia a fronte dei costi che dovremo affrontare per acquisire i jet statunitensi e tenerli in linea nei prossimi decenni. Costi incompatibili con le risorse che la Difesa assegna (e presumibilmente assegnerà anche nell’immediato futuro) all’Esercizio, cioè alla parte del bilancio adibita alla gestione di mezzi e infrastrutture e all’addestramento. Che non ci siano alternative all’F-35 è poi quanto meno discutibile dal momento che i tedeschi (che non acquistano l’F-35) impiegano i loro Eurofighter Typhoon anche per l’attacco al suolo.
Cosa che potrebbe fare anche l’Italia e che farà dal momento che armi come il missile da crociera Storm Shadow che oggi equipaggiano i Tornado verranno imbarcati in futuro sui Typhoon……anche perché non entrano nella stiva degli F-35. Il Typhoon del resto è un cacciabombardiere idoneo a svolgere operazioni contro altri velivoli come contro bersagli a terra e come tale viene impiegato anche dai britannici. Se vogliamo parlare di sprechi chiediamoci piuttosto perché stiamo cercando di svendere sul mercato dell’usato 24 Typhoon della prima serie, velivoli ancora nuovi, per ridurre il numero di quei jet in forza all’Aeronautica da 96 a 72 e ”fare posto “ a 75 F-35.
Se avessimo mantenuto la commessa prevista di 121 Typhoon, aggiornando i primi esemplari, avremmo già i velivoli necessari a tutte le esigenze dell’Aeronautica con un forte risparmio generale, dal costo di acquisizione a quello logistico determinato dal disporre di un solo aereo da combattimento e col vantaggio di puntare su un prodotto europeo nel quale la nostra industria è progettista, produttrice ed esportatrice. Curioso che un europeista convinto come il ministro Mauro si accodi alla lunga fila di coloro che ci vogliono mettere tecnologicamente e sul piano industriale e strategico nelle mani degli Stati Uniti. Più bilanciata, forse anche per rispetto alle posizioni presenti nel Partito Democratico, la valutazione del sottosegretario alla Difesa, Roberta Pinotti per la quale “il Parlamento ha dato il via a questo progetto: se riterrà che deve essere modificato e rivisto si farà una discussione importante alle Camere”.
Per il capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, “gli F35 sono una necessità sulla quale non c’è alternativa sul mercato” ma questo è vero solo per i 15 aerei destinati alla portaerei Cavour poiché non esiste nessun altro velivolo a decollo corto e atterraggio verticale col quale sostituire gli Harrier. Quindici aerei rappresentano un costo diverso da 90 e inoltre potrebbero forse venire acquisiti tra alcuni anni in leasing dai marines statunitensi, magari negoziando con Washington l’utilizzo delle basi di Aviano e Sigonella. Certo la rinuncia al velivolo o la riduzione della commessa comporterebbero la perdita degli investimenti effettuati negli ultimi dieci anni pari a 2,5 miliardi ma se da un lato pacifisti e affini sostengono il no all’F-35 valutando quanti asili e treni si potrebbero costruire o quanti infermieri si potrebbero assumere con quel denaro, dall’altro le istituzioni politiche e militari difendono l’aereo di Lockheed Martin definendolo indispensabile e per giunta “di pace”. Invece di trasparenza e chiarezza , più che mai necessarie specie in tempi di grave crisi economica, tutti ci propinano propaganda unita a qualche buona dose di sedativo populista come la riduzione ulteriore dei costi della parata del 2 giugno, dietro la quale si cela l’assalto pacifista e del mondo del no-profit che vorrebbero far sfilare più volontari impegnati nel sociale e meno militari.
Più che giusto tagliare le spese superflue ma fa davvero ridere che a impedire alle Frecce Tricolori di sorvolare i Fori imperiali sia uno Stato che non è riuscito a tagliare i costi della politica, i mega-stipendi dei dirigenti pubblici e neppure le province. Qualcuno dovrà spiegarci dove sia il costo aggiuntivo dal momento che i piloti delle Frecce devono effettuare regolarmente voli addestrativi già previsti in bilancio e le ore di volo costano la stessa cifra, che i jet sorvolino Roma o le campagne intorno a Udine. Sarebbe poi utile sapere perché le Frecce Tricolori in volo sulla capitale costano troppo il 2 giugno ma erano una spesa giustificata (circa la quale nessuno ha avuto nulla da eccepire) il 20 aprile scorso, quando le loro scie verdi-bianco-rosse hanno accompagnato l’omaggio al Milite Ignoto in occasione della rielezione del presidente Giorgio Napolitano. Misteri di una Repubblica a sobrietà variabile.
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.