MAMMA LI TURCHI !
Secondo l’Annual Defence Budgets Report di IHS Jane’s Ankara ha speso per la Difesa 16 miliardi di dollari nel 2015, meno dell’Italia, ma molto di più (il 2,2 per cento contro l’1 scarso) in termini di percentuale del Prodotto Interno Lordo, quello turco è meno della metà di quello italiano.
Con quel denaro Ankara sostiene forze militari di quasi mezzo milione di effettivi e programmi di riarmo e potenziamento con cui punta ad essere autosufficiente nella produzione di sistemi d’arma entro il 2023 mentre la sua flotta (24 navi da combattimento maggiori, 20 minori e 13 sottomarini) supera già oggi per tonnellaggio quella italiana e presto disporrà di una portaelicotteri da assalto anfibio.
La Turchia di Recep Tayyp Erdogan costituisce oggi la più evidente dimostrazione che per ricoprire un ruolo di potenza regionale e sostenere ed espandere i propri interessi nazionali non è necessario disporre di un’economia d’acciaio né di una moneta forte.
Conta soprattutto avere una classe politica preparata, idee chiare, la disponibilità a investire sulla propria industria hi-tech e della Difesa oltre che sulle forze armate.
Conta dotarsi di una dettagliata programmazione politica e strategica e avere la spregiudicatezza di giocare su più tavoli col coraggio di esporsi a successi e sconfitte senza nascondersi dietro il paravento della “comunità internazionale”.
Dopo aver preteso dalla Ue 6 miliardi di euro (quasi il doppio degli ultimi tagli al welfare che Bruxelles e Berlino hanno imposto ai nostri “fratelli” greci) per fermare i flussi migratori originati nella stessa Turchia, Erdogan ha mandato al diavolo l’Europa che vorrebbe una revisione della legge antiterrorismo turca che oggi consente di incarcerare chiunque contesti il governo.
Certo europei e soprattutto tedeschi sono apparsi poco incisivi nei confronti di Ankara, specie tenendo conto che sarebbe bastato applicare ai turchi la metà delle sanzioni economiche che applichiamo assurdamente a Mosca per costringere Ankara a scegliere tra il tracollo monetario e finanziario o lo stop ai flussi migratori.
Questa valutazione nulla toglie però allo status conseguito dalla potenza turca, considerato che la storia è piena di circostanze in cui egemonie nazionali si sono affermate anche a causa delle negligenze dei rivali.
L’ascesa della Turchia come potenza di riferimento in una vasta area che va dal Mediterraneo all’Asia Centrale, dal Golfo Persico alla Somalia superando i confini che furono dell’Impero Ottomano, rappresenta un’umiliante lezione per l’Italia.
Non solo perché i turchi stanno occupando anche aree d’influenza che un tempo erano italiane e che potrebbero ancora esserlo se qualcuno a Roma avesse la più pallida idea di come fare politica estera (per una volta senza limitarsi a lasciarla fare all’ENI e senza attendere le discutibili iniziative dell’ONU, della NATO o della UE, come se questi organismi perseguissero gli interessi nazionali dell’Italia) ma anche perché Ankara sta dimostrando che capacità di leadership, chiarezza degli obiettivi da perseguire e coraggio di esporsi pagano in termini di influenza anche nei confronti di Stati economicamente più ricchi, forti e stabili.
In Libia il governo “targato” ONU di Fayez al-Sarraj (nella foto a sinistra) è riuscito a prendere piede nella base tripolina di Abu Sittah solo dopo un vertice tenutosi a Istanbul e le milizie islamiste che lo sostengono hanno come punto di riferimento Turchia e Qatar, non certo l’Italia. Ankara del resto, insieme a Doha, era già sponsor del precedente governo islamista di Tripoli, guidato da Khalifa Ghweil, a conferma di come i turchi stiano ritagliandosi un ruolo guida almeno in una regione (la Tripolitania) di quel territorio libico che l’Italia strappò loro oltre un secolo or sono.
Grazie all’oculata politica turca e al supporto di Washington oggi gli islamisti di Tripoli (Salafiti e Fratelli Musulmani) non sono più parte di un governo non riconosciuto ma dell’esecutivo ufficiale voluto dall’ONU.
Un risultato che costituisce un grande successo per Ankara e risulta indigeribile per l’Egitto e i suoi alleati (sauditi, emiratini e francesi) che appoggiano il governo laico di Tobruk e le milizie del generale Khalifa Haftar.
Oggi il peso di Ankara in Libia è decisivo per le difficili sorti del Paese, molto di più di quanto possa esserlo quello dell’Italia, riuscita a “bruciarsi” con tutti i contendenti.
L’anno scorso Roma si giocò le simpatie delle forze islamiste di Tripoli, che infatti non ci hanno certo aiutato nella vicenda dei 4 ostaggi italiani catturati vicino a Melitha, per il suo sostegno a Tobruk.
Negli ultimi mesi Roma è riuscita poi a compromettere anche i rapporti con Haftar rifiutandogli aiuti militari (che invece Parigi ha concesso senza troppa pubblicità) e appoggiando l’esecutivo al-Sarraj che sarà pure sostenuto dalla comunità internazionale ma presso il quale l’influenza italiana sembra essere del tutto marginale (ENI a parte) col risultato che in Cirenaica (per la gioia di Parigi) va di moda bruciare le bandiere italiane.
Del resto, a differenza dell’Italia, la Turchia conduce una politica di elevata visibilità per ritagliarsi influenza e presenza nelle aree d’interesse strategico.
In Somalia, altra ex colonia italiana dove Roma guida una missione militare addestrativa della Ue (Eutm Somalia), i turchi sono sbarcati in forze. Prima con programmi di sviluppo che hanno visto la ricostruzione del porto nuovo di Mogadiscio (ora a gestione turca), la realizzazione del nuovo terminal dell’aeroporto, di un ospedale, di strade a doppia corsia illuminate grazie a pannelli solari e persino la fornitura dei mezzi per il servizio di raccolta dei rifiuti.
Poi con un definito programma di presenza e assistenza militare che vede la costruzione cdi una base militare che sarà ultimata a settembre e in grado di accogliere forse 2 mila militari.
Si dice che inizialmente i militari turchi saranno alcune centinaia con compiti di presidio e addestramento dei battaglioni somali destinati a combattere le milizie qaediste Shabab e quello dello Stato Islamico che hanno da poco preso piede anche in Somalia.
Mentre i turchi in pochi mesi realizzano una grande base a Mogadiscio, in Italia si discute da tre anni di aprire una missione militare nazionale di assistenza all’esercito somalo, svincolata dalla missione Ue Eutm-Somalia, ma finora nessuno ha preso decisioni in proposito.
In compenso abbiamo aperto da anni una base logistica a Gibuti dove l’influenza italiana è destinata a restare del tutto simbolica, schiacciata dalla massiccia presenza francese, statunitense e presto anche cinese.
Sul fronte siriano i turchi restano in contrasto con la Russia e combattono oggi lo Stato Islamico (che fino a ieri avevano tollerato e sostenuto contro curdi e Bashar Assad) con un crescente impegno militare mentre in Iraq condizionano il governo scita di Baghdad mantenendo un battaglione meccanizzato a nord di Mosul, nel settore curdo.
Ma il vero capolavoro che suggella il ruolo di “grande potenza” della Turchia è rappresentato dalla realizzazione di una vasta base militare in Qatar che ospiterà 3 mila militari, forze terrestri, speciali, aeree e navali. Realizzata con fondi dell’emirato, la base sarà pronta nel 2018 e verrà guidata da un generale di brigata turco con compiti di consulenza e addestramento alle truppe di Doha e forse anche a milizie panarabe legate alla Fratellanza Musulmana.
Con la base nell’emirato (che già ospita nell’aeroporto militare di al-Udeid il quartier generale delle forze aeree del Central Command statunitense che gestisce le operazioni in Iraq, Siria e Afghanistan) la Turchia entra nel club ristretto delle potenze che dispongono di infrastrutture militari nel Golfo Persico con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna.
Certo la politica di Erdogan non è priva di difficoltà e oggi Ankara ha seri problemi con quasi tutti i suoi vicini (Siria, Russia, Ue….) ma al di là di questa considerazione (e tenendo conto dei tentativi di ricomporre la crisi con Mosca e con Israele) oggi i turchi sono interlocutori con i quali tutti devono fare i conti per gestire le crisi in atto nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Difficile poter dire altrettanto dell’Italia.
Foto Reuters, Anadolu, Forze Armate Turche e AP
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.