L’OFFENSIVA CONTRO L’ISIS IN SIRIA E IRAQ

da Il Corriere del Ticino del 30 maggio 2016

Lo Stato Islamico hai giorni contati sotto il peso delle offensive irachena a Fallujah e curda a Raqqah oppure è in grado di resistere ancora a lungo alla pressione dei suoi avversari?

Secondo il Pentagono lo Stato Islamico ha perduto il 45 per cento del territori sotto il suo controllo in Iraq mentre in Siria ha ceduto tra il 16 ed il 20 per cento del territorio ma su entrambi i fronti il potenziamento delle forze statunitensi, complessivamente 5 mila unità, non può essere considerato risolutivo anche se indica un maggior impegno di Washington nella guerra finora condotta in modo che definire blando sarebbe eufemistico.

Degli oltre 4 mila militari statunitensi schierati in Iraq la gran parte si occupa di addestrare le forze irachene e di proteggere le infrastrutture militari mentre diverse centinaia di uomini delle forze speciali operano in prima linea come consiglieri militari assegnati ai battaglioni dell’esercito di Baghdad.

Washington ha specificato che i suoi uomini e mezzi (soprattutto aerei) in Iraq non affiancano né supportano le milizie scite che costituiscono la componente più importate nelle operazioni contro l’Isis anche nella provincia di al-Anbar e a Fallujah e che godono invece dell’aiuto dei pasdaran iraniani della divisione al-Quds.

Il comandante della milizia sciita Saraya al-Jihad, Abu-Kawsar, ha detto che ”il ruolo dei nostri fratelli iraniani è notevole e hanno una grande competenza militare per affrontare il nemico”.

Gli USA quindi, soprattutto per non urtare la suscettibilità degli alleati arabi de Golfo, non intendono cooperare con Paesi che, pur combattendo l’Isis, non aderiscono alla Coalizione guidata da Washington come dimostra anche il rifiuto americano alla proposta di Mosca di raid aerei congiunti su Raqqa.

Almeno 400 tra marines e special forces operano nel nord della Siria al fianco delle milizie curde e arabe riunite nelle Forze democratiche siriane (Fds); gli ultimi 250 sono arrivati nei giorni scorsi dalla base turca di Incirlik in quella siriana di Ramilan, controllata dai curdi a nord di Hasaka. Secondo fonti curde “parte della forza americana è stata trasferita nella città di Tell al Abiath nel quadro dei preparativi della battaglia per strappare di Raqqa, capitale dello Stato Islamico, ai jihadisti”.

Benché il ruolo delle forze USA in azioni di guerra sia stato confermato dalla France Presse e da testimonianze curde il Pentagono ha negato che le forze speciali americane siano nella prima linea di combattimento contro l’Isis in Iraq e in Siria.

“Non sono in prima linea”, ha assicurato il portavoce Peter Cook, pur riconoscendo che non ci sono precise definizioni di ciò che significhi “prima linea” in quel tipo di conflitto. Il loro ruolo, ha precisato Cook, “è quello di consigliare e assistere le FDS. Secondo l’agenzia di stampa francese, alcuni soldati americani sono stati visti indossare uniformi e distintivi delle forze di difesa popolare curde (YPG).

Il mese scorso il segretario alla Difesa Ashton Carter (nella foto sotto), pressato dai membri della Commissione difesa del Senato, ha ammesso che i 5.000 militari in Iraq e Siria dell’Operation Inherent Resolve (la coalizione contro l’ISIS) sono “in combattimento…e credo che dobbiamo dirlo chiaramente”.

Il numero uno del Pentagono ha cercato comunque di limitare la portata delle sue dichiarazioni aggiungendo che l’intento “non è sostituire le forze locali ma cercare di renderle potenti a sufficienza affinché possano cacciare l’Isis con il nostro sostegno”.

L’impressione è quindi che la Casa Bianca voglia negare un impegno bellico che, a pari del rafforzamento e prolungamento della presenza militare in Afghanistan, suonerebbe come il fallimento della strategia perseguita nei due mandati presidenziali di Barack Obama e incentrata sul ritiro americano dai conflitti in Iraq e Afghanistan.

Un’ammissione che, in piena campagna elettorale non favorirebbe certo il candidato democratico Hillary Clinton.

Sul campo di battaglia l’offensiva su Fallujah, città in mano all’Isis dal gennaio 2014, rischia di assomigliare alle due battaglie sostenute nella stessa città dagli statunitensi nel 2004: un furioso conflitto casa per casa in cui i civili cercano di fuggire ma vengono utilizzati come scudi umani dai jihadisti.

Dopo aver circondato la città le forze irachene (che hanno registrato in una settimana 65 caduti) avanzano lentamente verso il centro, in base ai piani preparati dal generale iraniano Qassem Soleimani, il comandante della Forza al-Quds, impiegando 45 mila combattenti (20 mila agenti di polizia, 5 mila miliziani sunniti, 5 mila militari delle forze speciali antiterrorismo e 15 mila miliziani sciti), contro una forza dell’Isis stimata in non più di un migliaio di miliziani il cui compito è probabilmente solo di rallentare il nemico per poi fuggire dalla città mischiandosi ai 50 mila civili rimasti in città.

Una tattica già adottata l’anno scorso a Tikrit, città natale di Saddam Hussein. Come a Tikrit, anche a Fallujah la presenza di milizie scite già macchiatesi di crimini contro la popolazione sunnita che in gran parte sostiene l’Isis rischi di scoraggiare il rientro in città degli abitanti una volta terminata la battaglia.

In Siria l’Isis resta sulla difensiva nel settore di Raqqah, pressato da nord dai curdi e da sud dall’esercito di Damasco, ma mantiene invece l’offensiva lungo il confine turco tagliando le linee di rifornimento a nord di Aleppo alle forze ribelli siriane che combattono Bashar Assad.

L’Isis combatte una guerra spregiudicata approfittando di tutte e opportunità emerse dai molteplici conflitti interni alla guerra civile in Iraq e Siria.

Per questo non è da escludere che possa ritirarsi da Raqqah se la città risulterà indifendibile per ripiegare su Mosul e Deir Ezzor.

Pare che molti combattenti stranieri e civili abbiano già lasciato la città ma non è certo che le forze curde, le cui avanguardie sarebbero giunte a 25 chilometri da Raqqah, abbiano la forza di attaccarla (pur con il supporto statunitense) senza l’intervento dell’esercito siriano e delle forze russe. E’ ancora presto per dare lo Stato Islamico per spacciato.

Foto: AP, TM News, Askanews e US DoD

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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