IL GENERALE BERTOLINI LASCIA….IL SEGNO

Il generale di corpo d’armata Marco Bertolini, 63 anni, ha lasciato giovedì il servizio attivo e la guida del Comando operativo di vertice interforze all’ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone. Ha chiuso 44 anni di servizio con un discorso che ha suscitato entusiasmo tra i militari presenti.

Un discorso grintoso, appassionato, anticonformista e a tratti provocatorio, nello stile di un ufficiale paracadutista e incursore che nel corso della sua brillante carriera non ha mai rinunciato a parlar chiaro, risultando spesso scomodo a politici (completamente assenti alla cerimonia) e superiori.
Un discorso che pubblichiamo nella convinzione che i lettori lo troveranno interessante e anticonformista, specie se confrontato con il linguaggio paludato e buonista che spesso caratterizza i nostri vertici militari e politici.
A fondo pagina ripubblichiamo, sullo stesso tema, l’articolo di Francesco Grignetti da La Stampa.

Concludo in questi giorni 8 anni e mezzo di comando interforze, iniziati quando nel 2004 mi venne concesso il privilegio di essere il primo comandante del Cofs, uno strumento che ci rende oggi titolari di nuove capacità che sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliano guardare. Ma oggi è del Coi e a voi del Coi che voglio parlare e degli intensi 4 anni e mezzo che con voi vi ho trascorso.

Penso alle mille pianificazioni sull’Afghanistan, una terra nella quale l’Italia non è un dettaglio grazie al prolungato impiego delle nostre unità al fianco del Governo afghano, impegnato in una dura guerra contro un nemico non ancora sconfitto ed anzi oggi presente, sotto altre forme, fino in Nord Africa e nel Vicino Oriente, dove continuiamo a svolgere – in Libano, Irak e Kuwait – attività fondamentali per i nostri interessi e la nostra dignità nazionale.

Penso alle missioni negli angoli più delicati del nostro spicchio di mondo, come nella Repubblica Centrafricana, nel Mali, a Gibuti e nell’indimenticabile e sfortunatissima Somalia, un Paese che continua a guardare con grande fiducia all’Italia. Evidentemente l’Italia che era laggiù fino alla prima metà del secolo scorso ha lasciato un ricordo tutt’altro che negativo.

Penso alla perdurante attività di nostre unità in aree critiche come i Balcani, resi instabili da una parcellizzazione che li espone ora a minacce difficili come quella dei foreign fighters e penose come quella della migrazione dalla penisola anatolica; e a proposito di migrazione penso allo sforzo prodotto per l’operazione Eunavfor Med alla quale il Coi assicura le risorse umane ed info-infrastrutturali fondamentali della componente di comando e controllo a livello strategico.

Non posso dimenticare, inoltre, gli eventi drammatici che in quei contesti hanno portato alla morte o al ferimento di molti nostri soldati – e per rimanere tra i soldati – permettetemi di ricordare il generale Giangiacomo Calligaris caduto mentre addestrava giovani piloti a compiere quello che viene spesso loro richiesto in operazioni.
Abbiamo percorso molta strada insieme, pianificando e ripianificando, organizzando e riorganizzando, dando ordini e contrordini, cercando sempre di smarcarci dal ruolo di meri produttori di carte scritte e sforzandoci di fare il meglio e il giusto per le nostre unità in operazioni.

Abbiamo inoltre trasformato radicalmente il Coi per adeguarlo al nuovo ritmo operativo e siamo certi che, per quanto non compiutamente percepita dall’esterno, questa trasformazione consegni all’Italia uno strumento di comando e controllo interforze vero, qualcosa di molto diverso da una pur importante appendice dello Smd, periferica ed inesauribile produttrice di schede ed appunti. Voi sapete di cosa sto parlando!

Consapevole dei miei personali limiti, vi confesso di essere spesso rimasto ammirato dalla vostra tempra di ottimi incassatori e da quello che sapete fare. Siete veramente bravi! Ma il Coi è uno strumento sul quale si deve investire ancora se si vuol governare un futuro che sarà sempre più complesso, come emerge chiaramente dalle cronache tragiche che ci travolgono quotidianamente dagli schermi dei nostri televisori.

Sarà, infatti, un futuro nel quale la storia sarà tornata in movimento e che non ci vedrà semplicemente minacciati da qualche organizzazione malavitosa, una di quelle che piacciono così tanto al nostro pubblico, evidentemente convinto da qualche bugiardo che non ci vuole bene, in Italia e all’estero, che si tratta di una nostra caratteristica sociale, genetica, da sbandierare con masochistica fierezza, come i moncherini del mendicante, e da fronteggiare semplicemente con qualche altro tomo di buone leggi e con una adeguata disponibilità di tutori delle stesse.

E da celebrare con una bella fiction e con qualche succoso approfondimento da talk show.

Al contrario, si affaccia un’epoca nella quale dovremo tornare a guardare il mondo che rotola fuori dai confini di casa nostra con meno spocchia e maggiore rispetto, chiedendoci seriamente quale ruolo possiamo e dobbiamo avere là fuori.

Chissà che questo tuffo nella vera realtà non contribuisca a dare vigore alla nostra autostima, restituendo onore a quella forma di libertà, la sovranità nazionale, che è la ragione vera del nostro giuramento e della quale i Soldati sono da sempre i sommi sacerdoti. Chi li ignora, li disprezza o li combatte non lo fa a caso: sa benissimo a cosa fanno scudo!

 

Per questo, voglio esprimere tutta la mia sincera ammirazione ai giovani che hanno scelto la nostra impegnativa strada, perché so che a loro toccheranno prove che a quelli della mia generazione sono state risparmiate.

E questo, inoltre, senza poter neppure lucrare quell’affetto che una fetta della nostra società molto ben rappresentata ai piani alti parrebbe riservare solo agli illuminati sbriciolatori di Madonnine, agli indignados anti-tutto, ai non-violenti pestatori di poliziotti e ai mai sazi inventori di nuovi incredibili diritti. Per quel che vi riguarda, marcate la differenza! Abbracciate ancor più forte i vostri doveri e lasciateglielo pure il loro affetto!

Ma oggi concludo anche il mio servizio attivo, e quindi spero che mi perdonerete se azzardo un brevissimo bilancio personale.

L’Italia alla quale volevo dedicare i miei entusiasmi, all’ingresso in Accademia 44 anni fa, era ormai diventata moderna, democratica, non violenta, moderata e solidale, ora è anche vegana. Innamorata del presente, in trepida attesa del futuro e dimentica del passato, a farsi difendere non ci pensava proprio, visto che le avevano detto che era iniziata un’epoca di peace and love forever grazie a qualche tratto di autorevole penna che relegava le Forze armate al ruolo di fastidiosa ed inutile necessità, resa obbligatoria solo dalla logica delle alleanze.

Ciononostante, non mi fu troppo difficile conferire un senso profondo alla mia vita di giovane soldato di mestiere investendomi almeno dell’ingenuo compito di affermare e difendere un’orgogliosa diversità rispetto al resto del mondo. Era una diversità di lingua, la più bella, di arte, la più luminosa, di religione, la più vera, di storia, la più nobile, e di famiglia, la più sana, solida e prolifica. Temo che da allora sia cambiato qualcosa.

In ragione di questa autoinvestitura, in ogni caso, sono sempre stato più che appagato della mia scelta di vita. Grazie al mio “lavoro”, infatti, non ho mai avuto difficoltà ad individuare robuste tracce di quella che doveva essere la vecchia educazione, anche la vecchia grandezza, nel comportamento sobrio, umano, disciplinato e coraggioso dei nostri soldati, benché spesso occultato dietro un velo di troppi appellativi ed acronimi stranieri, di troppe gestualità e sonorità rock, pop, rap, di troppi berrettini e civetterie da contractor. Insomma, resto convinto che sotto una fastidiosa patina di provinciale esterofilia continuino in essi a pulsare i soldati italiani di sempre, espressione virile di un paese che può, solo grazie a loro, considerarsi Patria.

Non è quindi per un rituale artifizio retorico da praticare almeno una volta in occasioni come questa, che concludo dicendomi in debito con le Forze armate, capaci di riempire la mia vita come nessun’altra istituzione avrebbe potuto fare.

L’hanno riempita, fin dal mio lontano tenentato al Col Moschin, iniziandomi alla ricerca ostinata – spesso coronata da successo – di modi sempre più innovativi ed entusiasmanti per rompermi l’osso del collo, in buona compagnia ovviamente.

L’hanno riempita facendomi essere della Folgore, una magnifica realtá costantemente impegnata per l’Italia e impregnata di Italia che, proprio per questo, può da sempre vantare il sordo rancore di chi, nel nostro paese, non potrà mai smettere di odiare quello che essa rappresenta.

E’ anche storia di questi giorni. L’hanno riempita, infine, lasciandomi coltivare un ostinato orgoglio di soldato italiano, italiano tutt’altro che pentito, quando correttezza politica non avrebbe potuto tollerare altro che l’invidiuzza rassegnata di un moderno ed evoluto marmittoncello da discoteca, entusiasta della sua ovvia e globalizzata subordinazione ai nazionalismi altrui.

Concludo il mio servizio attivo, quindi, ma non il Bonum Certamen al quale sono stato avviato dai miei genitori e dai racconti di mio padre, maestro elementare e soprattutto orgoglioso folgorino in Africa Settentrionale e “non collaboratore” a lungo ingabbiato al “305”, il durissimo campo di concentramento inglese in Egitto. Orfano di guerra della 1^GM, all’atto del secondo conflitto mondiale si era arruolato volontario, sull’esempio del padre contadino di Quattro Castella che vent’anni prima, con 4 figli all’attivo e 1, lui, in arrivo, non si era sottratto al richiamo che l’avrebbe portato alla morte.

Che forza seduttiva aveva l’Italia su quelle anime semplici! Riflettiamo, quando siamo tentati di vituperarla a causa della sua spesso disarmante rappresentazione odierna. Ringrazio quei miei comandanti che, con la forza del loro esempio e dei loro cazziatoni, mi hanno fatto andare quando volevo stare e stare quando volevo andare: hanno avuto ragione. Soprattutto, ringrazio i paracadutisti, gli arditi, i soldati di tutte le Forze armate che hanno dato gambe alla marcia della mia vita.

All’ammiraglio Cavo Dragone, nei cui confronti comincio a nutrire sentimenti di amichevole e sincera invidia nel saperlo meritevole destinatario da oggi dello stesso orgoglio che fino a poche ore fa sentivo mio, auguro ogni fortuna, nella certezza che il suo periodo alla vostra testa sarà “grande”.

Infine, ringrazio la mia famiglia e soprattutto la mia metà, mia moglie Caterina, per il supporto, spesso rassegnato, che mi ha assicurato in questi decenni. Sta a me, da adesso, fare in modo che l’estraneo che nei giorni a venire sorprenderete a notte fonda in pigiama intento a saccheggiarvi il frigorifero sappia meritare qualcosa di più della vostra imbarazzata sopportazione.

 

L’addio amaro del generale “Preparatevi alla guerra”
di  Francesco Grignetti da La Stampa del 2 luglio

Brutti presagi, agitano i piani più alti delle nostre forze armate. «Ad altri toccheranno sfide che alla mia generazioni sono state risparmiate», dice il generale Marco Bertolini, evocando scenari di guerra. E nel dire Bertolini non si commuove, anzi. La voce gli si fa di ghiaccio.

«La storia si è rimessa in movimento. Non fronteggiamo soltanto quattro organizzazioni malavitose, come piace pensare alla nostra opinione pubblica. Qualcuno pensa che le nostre forze armate siano un oggetto inutile. Invece c’è bisogno di investire ancora, se vogliamo governare un futuro difficile e drammatico».Nel grande hangar pavesato a festa, ospiti del Centro operativo interforze, c’è il più assoluto silenzio per il giorno dell’addio di Bertolini.

Da quattro anni è il responsabile delle nostre missioni all’estero e ad ascoltarlo è arrivato il parterre delle grandi occasioni. Un centinaio tra generali, ammiragli, colonnelli che al termine dell’intervento lo applaudiranno forsennatamente. Non un solo politico. C’è invece il capo di stato maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, per questa cerimonia di avvicendamento che porta alla guida del Coi un ammiraglio, Giuseppe Cavo Dragone.Non potrebbe essere altrimenti.

Bertolini è infatti una leggenda vivente delle nostre forze armate: quintessenza del paracadutista incursore, non s’è negato un conflitto, dal Libano (dove nel 1982 fu ferito ed ebbe una medaglia d’oro) in poi. Somalia, Balcani, Afghanistan, sempre in prima fila. U

n uomo d’azione e di grande carisma, di quelli che piacciono ad americani e inglesi, che infatti scelsero lui, parà italiano, come capo di stato maggiore della missione in Afghanistan nel 2008 nel momento di massimo urto dei taleban.

Uno che ama parlare chiaro e mai a caso. «Guardiamo a quanto accade fuori dai nostri confini con più rispetto. Osserviamo la vera realtà, non quella delle fiction di prima serata o di alcuni superficialissimi talk-show».

Sulla sua scrivania si accavallano le notizie dai teatri dove sono schierati i nostri, in Afghanistan, in Iraq, in Libano, nei Balcani, nel Mediterraneo, che non inducono ad alcun ottimismo. «In Italia ci ostiniamo a voler credere di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Non è così».Se lo amano tanto, i militari, è anche perché Bertolini non ha mai avuto paura, né delle pallottole, né delle parole.

Nel 1997, rimbrottò Beniamino Andreatta che lamentava l’omertà tra i paracadutisti: «È un termine che non mi piace. Normalmente si usa per altri ambienti e altre occasioni».

Due anni dopo, capo di stato maggiore del contingente Nato destinato a entrare in Kosovo dalla Macedonia, disse che i raid erano «inutili» e Massimo D’Alema volle la sua testa. Passato qualche anno, troppo bravo per vedersi troncare la carriera, zittì un altro premier di nome Silvio Berlusconi che ironizzava sui militari in Afghanistan a guardia del deserto dei tartari.

Bertolini scrisse una lettera: «Scrivo, amareggiato, dall’avamposto della Fortezza Bastiani…».Ieri il discorso di commiato. Nient’affatto incoraggiante. Il generale Graziano lo ha ringraziato calorosamente: «Sei stato parte della storia delle Forze Armate e spesso ne sei stato interprete principale».

Foto: Difesa.it, Isaf e Fausto Biloslavo

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