La Libia nel caos importa gasolio

di Roberto Bongiorni   da Il Sole 24 Ore  del 3 settembre 2013

La produzione petrolifera secondo il governo è crollata a 100mila barili al giorno dopo gli scioperi a raffica dei lavoratori della Cirenaica Per il Paese che vanta le maggiori riserve di petrolio dell’Africa, ed è il terzo esportatore di gas naturale del continente, essere costretti ad acquistare gasolio e olio combustibile dai Paesi vicini per mantenere in vita le centrali può suonare come un paradosso. L’ultimo, grave “effetto collaterale” della primavera incompiuta che sta paralizzando l’ex regno di Muammar Gheddafi è quello che tutti speravano non si avverasse mai: un duro colpo assestato all’industria energetica. Di fatto la sola ricchezza nazionale che finora era uscita indenne dal caos politico che imprigiona la Nuova Libia da oltre un anno. Vittima delle sempre più accese rivalità tra le agguerrite milizie e il fragile governo di Tripoli, e tra quest’ultimo e la riottosa regione della Cirenaica, dove soffiano pericolosi venti secessionisti, la produzione petrolifera ha accusato un crollo verticale: in meno di due mesi sarebbe così passata da punte di 1,5-1,6 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 100mila barili. Anche il settore del gas naturale ha subito la stessa sorte. I principali giacimenti della Cirenaica, la riottosa regione orientale da cui è partita la rivolta contro Gheddafi e ora impegnata in un duro braccio di ferro con Tripoli, sono chiusi. Per come si sono messe le cose, la loro riapertura non sembra imminente. La denuncia arriva da Tripoli, e, secondo alcune fonti informate, le cifre del crollo sarebbero eccessive.

Ma si tratta pur sempre di un vistoso calo. Il contenzioso era iniziato in luglio, per poi proseguire in agosto: scontenta per il mancato pagamento di salari e arretrati, e per la minaccia del governo di voler sospendere i loro pagamenti, l’organizzazione che gestisce la sicurezza degli impianti e dei giacimenti nella Libia Orientale, il Petroleum facilities guard (Pfg), aveva indetto una valanga di scioperi, culminati nella chiusura dei due principali terminal nazionali per l’export del petrolio. In verità la Pfg è assomiglia a un ombrello che raccoglie diverse milizie orientali, molte delle quali avevano diretto la rivolta contro Gheddafi. E che si sarebbero assunte di «propria iniziativa» la gestione della sicurezza di molti impianti. È legittimo ipotizzare che, per non subire atti di ritorsione e in assenza di alternative concrete, le major energetiche straniere abbiano accettato la loro presenza. Agli occhi delle milizie il governo è reo di gravi atti corruzione. Il fragile esecutivo guidato dal premier Ali Zeidan respinge da tempo le accuse e contrattacca: è la Pfg ad aver venduto il petrolio in nero, arrecando un danno incalcolabile alla nuova Libia. Minacciando di ricorrere all’aviazione, ha già schierato la marina per impedire alle navi “illegali” di lasciare le coste della Cirenaica.

Forse la verità sta nel mezzo. In ogni caso la paralisi dell’industria petrolifera rischia di sancire il fallimento di un’altra primavera araba, quella che finora aveva fatto meglio sperare. Sul fronte energetico la Libia conta più dell’Egitto, della Siria, dello Yemen o della Tunisia. La perdita del pregiato greggio libico rappresenta un grave danno per tutti. In primo luogo per l’economia del Paese, da decenni affetta da petrodipendenza (le vendite di greggio rappresentano il 97% del valore del suo export e l’80% del Pil). Ma anche per i Paesi importatori, in testa l’Italia, il primo acquirente di greggio della Libia. Nei primi cinque mesi del 2013, l’import dalla Libia ha rappresentato il 23% delle nostre forniture. Quanto al gas, la Libia è ancora il nostro quarto fornitore. Il governo di Tripoli non vuole e non può permettersi un’emorragia di fondi (5 miliardi di dollari al mese ai livelli produttivi toccati a giugno).

Indispensabili per mantenere il suo esercito di impiegati pubblici (un milione su una popolazione di sei milioni). Così come per dare il via al grande piano di ricostruzione, tante volte annunciato, ma di fatto in stato di totale paralisi. Il Governo minaccia dure risposte militari. Non può più tollerare lo strapotere delle agguerrite milizie. Tantomeno che occupino l’aeroporto, bloccando per qualche ora i voli, come accaduto ieri. «La principale minaccia alla stabilità della Libia è costituita da coloro che si rifiutano di consegnare le armi e le usano per i propri interessi personali», ha tuonato il premier Zeidan. Ma fino a che il suo esercito non sarà robusto e organizzato è davvero difficile che sia in grado di far rispettare la sua voce. Anche perché il tanto auspicato disarmo è di là da venire

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