In occasione del recente salone aeronautico Airshow China 2024, il CEO di Rosoboronexport, Alexander Mikheev, ha dichiarato in un’intervista al canale televisivo Rossiya dei primi contratti per la fornitura di caccia di quinta generazione Sukhoi Su-57E (variante da esportazione) ad alcuni partner stranieri.
«Il sistema di cooperazione tecnico-militare – ha dichiarato Mikheev (nella foto sotto) – dovrebbe portare sul mercato nuovi tipi di armi e attrezzature militari. Abbiamo già firmato i primi contratti per l’aereo Su-57E. I nostri partner, i paesi amici, vogliono acquistare armi russe affidabili e comprovate.»
«Non avevamo dubbi – ha dichiarato invece Rostech – che il Su-57 da esportazione sarebbe stato un successo allo show aereo di Zhuhai. Questo non è solo un caccia e un pezzo da esposizione, ma l’unico aereo al mondo che ha dimostrato di appartenere alla quinta generazione nella pratica, in battaglie serie. Ha un’agilità sorprendente, la forza e la grazia dei più impavidi velivoli d’acrobazia aerea, così come dimostrato dal pilota collaudatore Sergey Bogdan alle esibizioni quotidiane di volo. Queste sono le “ali della vittoria” che, ovviamente, altre Forze Armate del mondo vogliono avere nella loro flotta.»
I dettagli dei contratti (numero di esemplari e Paesi oggetto del possibile acquisto o dell’eventuale lettera d’intenti) non sono stati rivelati.
Il tema dell’esportazione del Sukhoi Su-57 ha visto numerose ipotesi suffragate da affermazioni e fonti più o meno attendibili, ma soprattutto ha riguardato l’interesse di differenti Paesi: dall’Algeria alla Malaysia, dal Myanmar fino all’India passando per Egitto, Kazakistan e Vietnam.
Non è tuttavia da escludere che tra i Paesi oggetto di acquisizione del Su-57E non menzionati da Mikheev (almeno due), possano rientrare non solo i suddetti in elenco ma anche qualche nazione insospettabile come Cina e Indonesia.
Sull’interesse di Pechino, notoriamente già al lavoro da diversi anni e con notevoli risultati su differenti aerei di quinta generazione come il Chengdu J-20, lo Shenyang FC-31 (J-31) e il suo nuovissimo derivato J-35, l’interesse potrebbe riversarsi più che altro sul nuovo propulsore del Su-57, l’“Izdeliye 30” o AL-51 realizzato dalla Saturn NPO.
D’altra parte ricordiamo che nonostante l’incredibile produzione di caccia in loco derivati in tutte le salse del Su-27 (J-11), del Su-33 (J-15) e del Su-30MKK (J-16), Pechino ha acquisito 24 caccia Su-35 nel 2015, un numero che risultò essere a tutti gli effetti sottodimensionato se non praticamente “inutile” se paragonato all’intera flotta della PLAAF (Aeronautica Militare cinese).
Al punto che le valutazioni espresse allora dagli analisti del settore furono tutte a senso unico: Pechino era semplicemente interessata ai motori del Su-35.
Gli analisti americani Jesse Sloman e Lauren Dickey in un’intervista al magazine The Diplomat affermarono a quel tempo che «I nuovi programmi aeronautici cinesi sono apparentemente in un limbo; alcuni analisti pertanto hanno sostenuto che un acquisto di AL-117S sarebbe il modo più veloce per i cinesi di mettere le mani su un turbofan adatto per il J-20. Dal momento che la Russia non è disposta a vendere il nuovo motore come prodotto stand-alone, la PLAAF dovrà acquistare il Su-35 e dunque l’AL-117S come parte di un sistema d’arma completo.»
Sull’Indonesia invece l’indiscrezione è collegata in parte all’Air Show cinese: fonti francesi hanno riportato di due importanti progetti in discussione tra Cina e Indonesia in occasione del suddetto salone aeronautico. Il primo riguarda l’acquisizione da parte di Giakarta degli aerei da combattimento J-10C prodotti dal Chengdu Aircraft Industry Group.
Se l’accordo dovesse andare in porto sarebbe una grande vittoria diplomatica e commerciale per la Cina in un paese che ha acquistato gli aerei da combattimento Rafale dalla Francia nel 2022 e ha firmato un memorandum d’intesa con gli Stati Uniti nell’agosto 2023 per acquisire gli aerei da combattimento Boeing F-15EX.
Il secondo negoziato chiuso tra Pechino e Giacarta riguarda invece l’interesse dell’Indonesia per i sottomarini S-26T di classe Yuan della China Shipbuilding Industry Corp. di proprietà statale e tutto ciò avverrebbe dopo che Giacarta ha firmato un accordo con il gruppo navale francese in aprile per l’acquisizione di due sottomarini Scorpène.
Alla recente cerimonia di insediamento del nuovo Presidente dell’Indonesia, Prabowo Subianto, la Repubblica Popolare cinese era rappresentata dal vicepresidente Han Zheng, inviato speciale di Xi Jinping e uno dei più alti dignitari stranieri presenti all’evento. Gli Stati Uniti hanno inviato alla cerimonia il capo del Comando Indo-Pacifico statunitense, l’ammiraglio Samuel Paparo.
Sebbene la maggior parte dei contratti in fase di negoziazione sia stata discussa con la Cina, la Russia ha potuto dire la sua al nuovo presidente: il rappresentante di Mosca all’insediamento di Prabowo, il Primo vice primo ministro Denis Manturov non è venuto da solo.
Sempre secondo fonti francesi, infatti, anche Alexander Mikheev, capo di Rosoboronexport, sarebbe giunto a Giacarta per discutere di contratti navali e aeronautici.
Secondo la valutazione d’oltralpe, i colloqui riguardavano proprio il potenziale acquisto di caccia Su-57 da parte dell’Aeronautica indonesiana. Sebbene i colloqui siano ancora in fase preliminare, questi potrebbero sfociare in accordi commerciali veri e propri.
La fonte francese ha parlato anche di trattative per un contratto di fornitura di 30 elicotteri d’attacco Mil Mi-35M “Hind”, anche se persone vicine al Governo indonesiano hanno smentito questa notizia considerando che Giacarta dispone già di una flotta di elicotteri da trasporto Mi-17 e di jet da combattimento Su-30MKM che hanno semplicemente bisogno di essere ammodernati.
Foto UAC
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da Guerre di Rete – newsletter di notizie cyber a cura di Carola Frediani
Cosa ci possiamo aspettare dalla nuova amministrazione Trump per quanto riguarda le politiche digitali? E che dinamiche si creeranno con le politiche e le leggi europee?
Stiamo parlando di questioni come la governance dell’AI, il rapporto dei governi con le grandi piattaforme e i social media, la produzione di chip e le regole sull’export, la gestione di acquisizioni e le politiche antitrust.
Piattaforme e Unione europea
Partiamo dalle piattaforme. Con Biden, le Big Tech si sono trovate con maggiori pressioni da parte degli organi di controllo di Washington. La Federal Trade Commission, l’agenzia federale a protezione dei consumatori e per la prevenzione di pratiche commerciali anticompetitive, ha bloccato alcune fusioni della Silicon Valley.
Più in generale, il Dipartimento di Giustizia e la FTC hanno avviato vari procedimenti e indagini per pratiche anticompetitive, anche contro Microsoft, OpenAI e Nvidia, cioè l’avamposto software e hardware americano nel campo dell’intelligenza artificiale. Nel mirino antitrust sono finite pure Amazon, Apple e Google.
Nel frattempo, al di qua dell’Atlantico, c’è tanta carne al fuoco. Già lo scorso marzo la Commissione europea apriva un’inchiesta su Google, Apple e Meta per sospetta violazione della legge sui mercati digitali (Digital Markets Act). Inoltre, sempre a marzo, l’Unione europea sanzionava Apple con una multa da 1,84 miliardi di euro, in seguito alla denuncia della svedese Spotify. Secondo la Commissione, Apple avrebbe abusato della sua posizione dominante per impedire agli sviluppatori di app di streaming musicale di informare gli utenti iOS su servizi di abbonamento musicale alternativi e più economici disponibili al di fuori dell’app (e di includere link ai loro siti). Un comportamento illegale secondo le norme antitrust dell’UE.
Non solo. Proprio questa settimana la Commissione Ue, in virtù della già citata legge sui mercati digitali (DMA), ha intimato a Booking, altro colosso americano e nota app per organizzare e prenotare vacanze e viaggi, di ottemperare a una serie di richieste. D’ora in poi, ad esempio, gli hotel, i noleggi auto e altri fornitori di servizi che utilizzano Booking.com saranno liberi di offrire prezzi e condizioni diversi (anche migliori) sul proprio sito web o su altri canali rispetto a Booking.com.
E sul fronte antitrust, proprio questi giorni, Meta è stata multata da Bruxelles per quasi 800 milioni di euro. La società madre di Facebook è accusata di soffocare la concorrenza “legando” i suoi servizi gratuiti di Marketplace al social network.
A luglio, la Commissione Ue, in un parere preliminare, accusava invece X di aver violato un’altra legge europea, quella sui servizi digitali (Digital Services Act), e in particolare di non rispettare le regole sulla trasparenza e responsabilità, definendo ingannevoli le spunte blu.
“Poiché chiunque può abbonarsi per ottenere tale status “verificato”, ciò incide negativamente sulla capacità degli utenti di prendere decisioni libere e informate in merito all’autenticità degli account e ai contenuti con cui interagiscono”, scriveva la Commissione. Che potrebbe arrivare anche a comminare sanzioni pecuniarie fino al 6 % del fatturato mondiale totale annuo della piattaforma. Una decisione di non conformità potrebbe anche far scattare un periodo di vigilanza rafforzato per garantire il rispetto delle misure. O far imporre versamenti di penalità periodiche per costringere la piattaforma a conformarsi.
Ora, secondo alcuni osservatori, se l’UE multasse X, il social di Musk, per aver violato, come dicevo sopra, le regole previste dal Digital Services Act, i rapporti tra Trump e la Commissione europea potrebbero inasprirsi molto rapidamente e rinvigorire la narrativa MAGA secondo cui l’Ue starebbe solo cercando di affossare le Big Tech statunitensi.
I legislatori europei hanno già esortato l’esecutivo Ue a non fare marcia indietro. Alexandra Geese, deputata tedesca dei Verdi al Parlamento europeo, ha dichiarato che “la Commissione europea deve ora farsi valere e difendere le regole Ue”, mentre per l’europarlamentare olandese dei Verdi Kim van Sparrentak, “soprattutto ora, è più importante che mai che l’Europa si alzi per difendere i nostri diritti e la democrazia, anche online”, riferisce POLITICO.
Con la nuova amministrazione Trump, insomma, quella sorta di implicito consenso transatlantico sulla regolamentazione delle grandi aziende tecnologiche statunitensi, come lo ha definito qualcuno, che si era intravisto con Biden, rischia di andare in frantumi.
Ora, è vero che, sul fronte interno Usa, la scelta di Matt Gaetz come ministro della Giustizia (se verrà confermata…) rende i contorni delle politiche antitrust e del rapporto con Big Tech più ambigui e incerti (perché lui è ostile ad alcune aziende tech e quasi “simpatizzante” di Lina Khan, attuale presidente della iperattiva Federal Trade Commission. Khan è comunque data in uscita, essendo invece sulla lista nera di Musk e di altri).
Ma nei confronti dell’Ue ci sono meno sfumature. Trump ha spesso sostenuto che l’Ue discriminerebbe le aziende statunitensi e ha detto che non permetterà all’Europa di “approfittarsi delle nostre aziende”. Ha perfino detto che l’amministratore delegato di Apple Tim Cook lo avrebbe chiamato per lamentarsi delle tasse arretrate che deve pagare in Irlanda (13 miliardi di euro per la precisione).
La velocità e l’entusiasmo con cui i top manager di Big Tech, anche quelli un tempo più lontani da Trump, si sono precipitati a congratularsi può far pensare alla paura di ritorsioni, ma potrebbe anche indicare la speranza di trovare una sponda su vari fronti, incluso quello contro la regolamentazione europea.
Cybersicurezza
Dato il mantra di “meno regolamentazione”, alcuni osservatori si aspettano meno sforzi, rispetto a Biden, di regolamentare vari settori delle infrastrutture critiche (trasporti, energia, sistemi idrici, sanità, tutti bersagliati da attacchi negli ultimi anni) per accrescere la loro sicurezza informatica.
L’agenzia federale per la cybersicurezza e la sicurezza delle infrastrutture, la CISA, verrà probabilmente riorientata su questioni strettamente cyber, riducendo le sue iniziative di lotta alla disinformazione.
Inoltre l’amministrazione Biden aveva preso provvedimenti contro alcuni produttori stranieri di strumenti di sorveglianza, come gli spyware sviluppati dalla società israeliana NSO, inserendoli in una Entity List. Si tratta di una specie di lista nera che limita la fornitura a NSO Group di prodotti americani, e vieta a enti o agenzie statunitensi di acquistare o utilizzare prodotti di NSO Group, come lo spyware Pegasus.
Secondo alcuni osservatori, la nuova amministrazione potrebbe rimuovere queste aziende dall’elenco delle entità statunitensi considerate un problema di sicurezza nazionale. Alcune di esse, come NSO Group, hanno già esercitato pressioni sui repubblicani.
Intelligenza artificiale
L’ordine esecutivo di Biden sull’intelligenza artificiale sarà quasi certamente revocato, scrive Tech Policy, e non sono gli unici a essere di questa idea. Infatti il partito repubblicano, già nella sua piattaforma ufficiale, aveva promesso di “abrogare il pericoloso ordine esecutivo di Joe Biden che ostacola l’innovazione dell’AI” e di sostenere invece uno sviluppo di questa tecnologia “radicato nella libertà di parola e nella prosperità umana” piuttosto che in “idee radicali di sinistra”. A rischio dunque saranno soprattutto le misure sulla protezione dei lavoratori, i diritti civili e altre tutele per i consumatori.
Ma quanto dell’apparato anche burocratico creatosi attorno all’ordine esecutivo sarà smantellato non è chiaro. Certo già il termine che ho usato, apparato burocratico, evoca Musk con la falce (o il lavandino, in un immaginario più aggiornato). Ad esempio, che ne sarà dell’obbligo per i grandi sviluppatori di AI di riferire al governo dei loro modelli? C’è chi pensa che salterà, ma potrebbe restare una questione aperta.
C’è però una tendenza della politica sull’AI dell’amministrazione Biden che potrebbe continuare e anche intensificarsi sotto Trump: più controlli all’export.
Sotto Biden, infatti, l’Ufficio per l’industria e la sicurezza del dipartimento del Commercio ha inasprito le norme sul controllo delle esportazioni di AI. Uno degli obiettivi principali di queste norme è impedire l’accesso della Cina ai chip AI più avanzati. “È probabile che la seconda amministrazione Trump rafforzi ulteriormente le restrizioni alle esportazioni di AI”, scrive il think tank Brooking Institute.
Infine think tank di destra pronosticano un allentamento normativo di varie restrizioni energetiche e ambientali per spianare la strada all’industria dell’AI (come noto molto energivora).
Bitcoin e criptovalute
Make Bitcoin great again. Si potrebbe riassumere così questa sezione. Insomma, la vittoria di Trump al momento è anche una vittoria per il mondo delle cripto. Del resto il partito repubblicano aveva promesso di porre fine al “giro di vite illegale e antiamericano sulle criptovalute” da parte dei Democratici.
Nessuno scommette dunque sulla sopravvivenza politica di Gary Gensler, il presidente della Securities and Exchange Commission (SEC), nominato da Biden, che aveva aggressivamente perseguito vari soggetti del settore.
(Su quanto la SEC di Gensler abbia considerato prioritaria la vigilanza e regolamentazione del settore cripto c’è un report dettagliato di una società di consulenza).
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La Corea del Nord avrebbe schierato sul fronte di Kursk anche sistemi d’artiglieria quali lanciarazzi campali e obici semoventi, alcuni dei quali sarebbero già stati dispiegati insieme alle truppe che Pyongyang avrebbe inviato in Russia per combattere nella regione oggetto dal 6 agosto dell’offensiva ucraina.
Lo rivela un rapporto dell’intelligence di Kiev di cui ha riferito il Financial Times. Nelle ultime settimane, la Corea del Nord avrebbe fornito a Mosca 50 obici semoventi da 170 mm M1989 Koksan (versione aggiornata degli M1979 forniti all’Iran durante la guerra contro l’Iraq del 1980-88), in grado di ingaggiare obiettivi fino a 40/50 chilometri di distanza che salgono a 60 con l’impiego di proiettili con propulsione a razzo.
I mezzi caricati su vagoni ferroviari mostrati in alcune immagini scattate recentemente nella città russa di Krasnoyarsk sembrano indicare una versione del semovente d’artiglieria (nella foto d’apertura) diversa rispetto a quella conosciuta (nella foto qui sotto).
Inoltre l’esercito nordcoreano avrebbe inviato in Russia anche 20 lanciarazzi campali, probabilmente M-1991 da 240 mm (nella foto sotto).
In attesa di conferme circa la presenza e l’impiego dei pezzi d’artiglieria nordcoreani vanno prese in esame diverse opzioni. Tenuto conto che i militari nordcoreani in Russia sono stati vestiti, equipaggiati e armati dai russi e opereranno, da quanto finora emerso, con il supporto delle forze di Mosca, appare curioso che Pyongyang abbia deciso di inviare obici e lanciarazzi campali a supporto delle proprie truppe ma non mezzi corazzati, blindati e veicoli da trasporto (le forze nordcoreane sarebbero state trasferite ella regione di Kursk con autocarri civili).
Non si può escludere quindi che la presenza di Koksan e BM-21, al pari dello schieramento di truppe, sia utile a Pyongyang a testarli in combattimento per trarne indicazioni utili all’impiego e offrirli sul florido mercato internazionale delle artiglierie con il bollino “testato in combattimento”.
Il 17 novembre l’agenzia Bloomberg ha rivelato che la Corea del Nord potrebbe schierare fino a 100.000 soldati in Russia nella guerra contro l’Ucraina tenendo conto però delle rotazioni dei contingenti. Bloomberg ricorda che queste valutazioni a inizio novembre vennero espresse dall’ambasciatore ucraino in Corea del Sud, Dmytro Ponomarenko.
Sempre ieri il segretario alla Difesa americano, Llyod Austin ha sottolineato che finora i militari nordcoreani non sono stati impiegati in combattimenti su vasta scala. “Non abbiamo visto molti combattimenti finora, ma penso che li vedremo presto” ha affermato Austin sostenendo che le truppe nordcoreane dovranno affrontare “sfide” nella guerra in Ucraina tra cui la barriera linguistica per comunicare con l’esercito russo, e aspettandosi che si verifichino “attriti” tra russi e nordcoreani.
Foto: Twitter e KCNA
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Alberto Cossu – Vision & Global Trends
Nel saggio “Nord dell’India. Storia e attualità politica del Pakistan” edito da Aracne, Francesco Valacchi delinea la storia e la politica del Pakistan dall’indipendenza ad oggi. Con un approccio e un linguaggio chiari, l’Autore presenta una panoramica completa e dettagliata di una nazione segnata da profonde divisioni interne e da un’instabilità politica che ne ha caratterizzato gran parte dell’esistenza e che si riflette anche sulla sua postura internazionale oscillante tra Sati Uniti e Cina.
L’Autore, in particolare, offre una visione circolare del Pakistan, considerando differenti fattori che ne disegnano la politica e il ruolo internazionale.
Il Pakistan, nato dalle ceneri dell’Impero britannico, è un Paese giovane e complesso, plasmato da una storia tumultuosa e da profonde divisioni interne. La partizione dell’India nel 1947, avvenuta sulla base di criteri religiosi, diede vita a due nazioni separate, ma profondamente interconnesse. Il Pakistan, concepito come la patria dei musulmani del subcontinente indiano, si trovò fin da subito a confrontarsi con sfide enormi: una popolazione eterogenea, risorse limitate e una fragile stabilità politica. La sua evoluzione è segnata dal conflitto con l’India riguardo ai confini del Kashmir che il Pakistan rivendica e che l’India considera invece parte della Federazione.
La costruzione di un’identità nazionale pakistana è stata un processo lungo e tortuoso, ostacolato da profonde divisioni etniche, linguistiche e regionali. Punjabi, Sindhi, Pashtun e Baluchi, ciascuna con la propria storia e cultura, hanno lottato per affermare i propri diritti e interessi, spesso in contrasto con il potere centralizzato. A ciò si sono aggiunte le tensioni religiose, con la presenza di diverse scuole di pensiero islamiche e di una significativa minoranza sciita.
La storia politica del Pakistan è stata caratterizzata da un alternarsi di regimi democratici e dittature militari. L’esercito pakistano, fin dalla nascita del paese, ha svolto un ruolo centrale nella vita politica, intervenendo più volte per rovesciare governi civili e instaurare regimi autoritari. Questa centralità dell’istituzione militare è stata giustificata dalla necessità di garantire la sicurezza nazionale e l’unità del paese, ma ha spesso limitato lo sviluppo democratico e alimentato la corruzione.
Un punto di svolta nella storia del Pakistan è stata la guerra civile del 1971 e la conseguente secessione del Pakistan orientale, che ha portato alla nascita del Bangladesh. La repressione violenta del movimento indipendentista bengalese ha lasciato profonde ferite nella coscienza nazionale e ha indebolito ulteriormente l’unità del paese.
La scena politica pakistana è dominata da due grandi partiti: il Pakistan People’s Party (PPP) e la Pakistan Muslim League-N (PML-N). Il PPP, fondato da Zulfikar Ali Bhutto, si è sempre presentato come un partito progressista e nazionalista, mentre la PML-N è più legata agli interessi delle élite economiche e industriali del Punjab. Entrambi i partiti hanno alternativamente guidato il paese, ma sono stati spesso accusati di corruzione e nepotismo.
Negli ultimi anni è emerso il Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI), guidato da Imran Khan, che ha attirato un vasto consenso popolare grazie a promesse di cambiamento e di lotta alla corruzione. Tuttavia, anche il PTI ha dovuto confrontarsi con le difficoltà di governare un paese così complesso e diviso.
L’Islam è una componente fondamentale dell’identità nazionale pakistana e ha una profonda influenza sulla politica del paese. Diversi partiti religiosi, come il Jamaat-e-Islami e il Jamiat Ulema-e-Islam, hanno sempre avuto un ruolo importante nella scena politica, promuovendo un’interpretazione rigorosa dell’Islam e sostenendo politiche conservatrici.
Il Pakistan si trova ad affrontare numerose sfide nel XXI secolo: la crescita demografica, il cambiamento climatico, la povertà, l’analfabetismo e il terrorismo. A ciò si aggiungono le tensioni con l’India per il controllo del Kashmir, che rappresentano una costante minaccia alla pace e alla stabilità della regione.
L’occupazione statunitense dell’Afghanistan ha generato un’ondata di terroristi e rifugiati che hanno minacciato la sicurezza del Pakistan, ma gli americani si sono irritati per lo sforzo del Pakistan di proteggersi mantenendo relazioni cooperative con i talebani afghani. Gli Stati Uniti hanno sostenuto le brutali operazioni antiterrorismo interne dell’esercito pakistano, ma poi hanno fatto la predica al paese sui diritti umani e la democrazia.
I prestiti e gli investimenti cinesi hanno radicato il paese nel debito senza stimolarne sensibilmente lo sviluppo. La costosa e lenta espansione cinese del porto pakistano di Gwadar si sta dimostrando debole nella logica economica e ha inimicato la popolazione locale dei Baluchi. I paesi dell’area del subcontinente indiano non approvano il sostegno del Pakistan ai gruppi militanti che conducono attacchi terroristici nel Kashmir amministrato dall’India né sono disponibili a difendere le posizioni del Pakistan su questioni diplomatiche che gli porterebbero in contrasto con il paese più influente, l’India. Il Pakistan si trova in una situazione in cui è insoddisfatto sia della Cina sia degli Stati Uniti ma non può lasciar andare nessuno dei due, per timore che l’altro acquisisca troppa influenza.
Nonostante le difficoltà, il Pakistan ha un grande potenziale. Il paese possiede risorse naturali importanti, una popolazione giovane e dinamica e una ricca cultura. La sfida consiste nel trasformare questo potenziale in sviluppo e prosperità, promuovendo uno sviluppo istituzionale più stabile.
La storia del Pakistan è una storia di lotte, di compromessi e di trasformazioni. Un paese giovane e complesso, che cerca ancora di definire la propria identità e di trovare un equilibrio tra le diverse forze in gioco. Il futuro del Pakistan dipenderà dalla capacità di superare le divisioni interne, di rafforzare le istituzioni democratiche e di affrontare le sfide globali.
In conclusione, Valacchi riesce a coprire un arco temporale ampio, dalla nascita del Pakistan fino ai giorni nostri, analizzando gli eventi chiave che hanno plasmato l’identità nazionale. Dedica ampio spazio all’analisi delle divisioni etniche, religiose e regionali che hanno caratterizzato la storia del Pakistan, sottolineando l’importanza di questi fattori nella comprensione della politica contemporanea.
Non si limita a un’analisi politica, ma intreccia storia, sociologia e cultura, offrendo una visione a 360 gradi della complessità pakistana. Un maggiore analisi sul ruolo geopolitico del Pakistan nel contesto regionale del Subcontinente Indiano avrebbe sicuramente arricchito il libro.
Il linguaggio utilizzato è chiaro e conciso, rendendo la lettura accessibile anche a chi non è esperto della materia. E’ un ottima lettura per studenti universitari, ricercatori interessati alla storia e alla politica del Sud Asia, giornalisti e operatori umanitari che lavorano nella regione, lettori curiosi di conoscere meglio un paese complesso e critico per gli equilibri geopolitici e militari dell’area del subcontinente indiano.
Nord dell’India. Storia e attualità politica del Pakistan”
di Francesco Valacchi
Aracne, Roma, 2024
Euro 14
Pagine: 108
ISBN 979-12-218-1545-0
PDF: 979-12-218-1546-7
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La Brigata Alpina “Julia” dell’Esercito ha concluso con successo l’esercitazione “Val Natisone 2024”, un test delle capacità operative del 7° Reggimento Alpini, in vista dell’approntamento del reparto che – a partire dal secondo semestre del 2025 – opererà in seno all’Allied Response Force (ARF) della NATO, la forza strategica ad elevata prontezza recentemente costituita dall’Alleanza Atlantica.
La “Val Natisone 2024” si è svolta adottando uno scenario di combattimento in montagna complesso e caratterizzato dalla sperimentazione di nuove tecnologie, sviluppandosi per quattro settimane: le prime due sono state dedicate all’addestramento individuale al combattimento, ai poligoni a fuoco con le armi in dotazione alle unità di manovra ed alla scuola mortai pesanti.
Nella terza settimana è stata pianificata e condotta un’attività tattica offensiva pluriarma che ha visto impegnati contemporaneamente diversi assetti della Brigata “Julia” fra i quali il 7° Reggimento alpini di Belluno, il 2° Reggimento genio guastatori di Trento, il Reggimento Piemonte Cavalleria (2°) di Villa Opicina, un’aliquota dell’8° Reggimento alpini di Venzone e una squadra a contatto del 2° Reggimento trasmissioni di Bolzano.
L’ultima settimana è stata dedicata all’atto tattico finale, nel corso del quale unità di fanteria alpina impegnate nell’attacco di centri di fuoco nemici posti a difesa di una valle, coadiuvate nella manovra dal fuoco di mortai pesanti, dal supporto di unità di cavalleria cruciali nell’individuazione dell’entità della minaccia nemica e del genio che ha supportato la manovra grazie alle capacità di forzamento di ostacoli nel corso dell’avanzata delle unità di fanteria.
All’atto tattico conclusivo – svolto nell’area del poligono occasionale del Monte Bivera, ai confini tra le province di Belluno e Udine, in un contesto montano a 2000 metri di altitudine, caratterizzato da un ambiente fortemente compartimentato e da condizioni climatiche rigide – hanno assistito il Comandante delle Truppe Alpine dell’Esercito, Generale di Divisione Michele Risi, insieme al Comandante della “Julia”, Generale Francesco Maioriello, e al Presidente dell’associazione nazionale alpini, Sebastiano Favero.
All’esercitazione ha partecipato anche un team di verifica del Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito, oltre a piloti di droni provenienti da aziende civili, i quali hanno testato le capacità dei sistemi UAVs (velivoli a pilotaggio remoto) nell’acquisizione di obiettivi di varie dimensioni, da molteplici distanze e quote, in particolare durante le attività a fuoco dei mortai pesanti.
La “Val Natisone 2024” ha rappresentato un’importante occasione di verifica delle capacità di combattimento in quota delle Truppe Alpine in cui viene richiesta una spiccata sincronizzazione degli assetti impiegati. Addestramento e tecnologie di ultima generazione sono stati centrali nello svolgimento dell’esercitazione, che ha rafforzato anche l’amalgama professionale e valoriale delle unità della “Julia”.
Fonte: 7° Reggimento Alpini
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A Vittorio Veneto il CESMAR ha organizzato il 15 Novembre un incontro presso l’aula civica del Museo della Battaglia, in cui Gianandrea Gaiani, direttore responsabile di Analisi Difesa, ha trattato il tema dell’impatto del voto statunitense nelle crisi internazionali.
L’incontro, che ha visto un folto pubblico gremire la splendida sala, è stato efficacemente moderato da Danilo Riponti, giurista e storico mentre le riprese video sono state effettuate da Vive TV .
Guarda il video qui sotto o a questo link.
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