L’EUROPA AMBIGUA SI PIEGA AD AMERICANI E SAUDITI

L’Italia non parteciperà ad azioni militari contro la Siria in assenza di una risoluzione dell’Onu che le autorizzi, ma non ha negato l’apporto a un documento stilato in conclusione del vertice del G-20 di San Pietroburgo che offre sostegno politico all’iniziativa militare contro Damasco. Una dichiarazione congiunta promossa da Washington e sottoscritta  inizialmente da 11 Paesi, tra i quali l’Italia, in cui si condanna l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano e si esprime sostegno agli sforzi degli Stati Uniti e di altri Paesi per attuare il bando al loro uso. ”Sollecitiamo una risposta forte della comunità internazionale a questa grave violazione delle norme internazionali, una risposta che dia un messaggio chiaro per cui questo tipo di atrocità non siano ripetute mai più” si legge nella dichiarazione che non contiene nessun riferimento esplicito all’azione militare ma sottolinea che  i paesi firmatari “sostengono gli sforzi intrapresi dagli Stati Uniti e da altri Paesi per rafforzare la proibizione dell’uso di armi chimiche”.

A sottoscrivere il documento tutti i Paesi favorevoli all’attacco come Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Francia e Gran Bretagna (David Cameron resta un fautore dell’attacco nonostante il voto contrario del Parlamento) oppure non contrari anche se non vi parteciperanno come Canada, Australia, Giappone e Corea del Sud. Tra i firmatari anche Spagna e Italia mentre la Germania inizialmente si è astenuta dall’aderire all’iniziativa ma il 7 settembre ha poi appoggiato l’iniziativa, a quanto  pare dietro forti pressioni di Washington. Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, al termine della riunione informale dei colleghi dell’Ue a Vilnius, ha annunciato che la Germania “firmerà la dichiarazione” circolata ieri al G20 a San Pietroburgo e siglata da 11 Paesi, tra cui l’Italia. “Molto bene” ha commentato il premier Enrico Letta su Twitter evidentemente lieto che Washington possa contare sul pieno appoggio di tutti gli europei per condurre una guerra che porterà solo danni all’Europa (e all’Italia) sul piano della sicurezza strategica ed energetica.
L’unico vero risultato del G.-20  di San Petroburgo è il successo di Barcak Obama nell’ottenere il sostegno europeo a una guerra senza obiettivi se non quello di allargare il caos e la destabilizzazione in medio Oriente e avvantaggiare le petro-monarchie del Golfo, ormai vere padrone della politica occidentale grazie ai pesanti investimenti per decine di miliardi effettuati soprattutto in Europa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stati Uniti e sauditi sono inoltre riusciti ad acutizzare la contrapposizione con la Russia, rimasta l’unica (insieme alla Cina) a preoccuparsi della deriva jihadista delle primavere arabe, consapevole che caduto Assad la penetrazione islamista si spingerà con maggiore decisione verso il Caucaso e l’Asia Centrale ex sovietica. Anche verso i Balcani (dove la penetrazione islamista è iniziata negli anni ’90 dopo le guerra in ex Jugoslavia) ma sembra che all’Europa questo non interessi o, peggio, lo abbia già accettato come un fatto ineluttabile. I distinguo e la contrarietà all’intervento militare annunciate nei giorni scorsi da Germania, Italia e dall’Unione europea sembrano svaniti o quanto meno fortemente annacquati dal documento stilato a San Petroburgo. Un vero e proprio “endorsement” a Washington e agli interventisti che scavalca le Nazioni Unite nelle conclusioni circa l’impiego di gas nervino nei sobborghi di Damasco il 21 agosto scorso. I firmatari infatti ”condannano l’attacco con armi chimiche avvenuto a Damasco e di cui il regime di Assad è ritenuto responsabile. ”Le prove – si legge nel documento – indicano chiaramente il governo siriano come responsabile dell’attacco”  sottolineando che “coloro che hanno perpetrato questi crimini devono essere ritenuti responsabili”. Le prove sulla responsabilità del regime per l’uso di armi chimiche sono “forti”, per questo serve “una risposta chiara e forte” della comunità internazionale ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea, Catherine Ashton, nella conferenza stampa a conclusione della riunione informale dei ministri degli Esteri dell’Ue cui ha partecipato anche il segretario di Stato americano John Kerry.

“Informazioni da un’ampia varietà di fonti sembrano indicare forti prove che il regime siriano è responsabile di questo attacco – ha sottolineato la Ashton – dal momento che è l’unico a possedere agenti chimici e i mezzi per diffonderli in quantità sufficienti”. Per questo, secondo l’Alto rappresentante, “una risposta chiara e forte è cruciale per rendere chiaro che questi crimini sono inaccettabili e che non ci può essere impunità”.
Un bel “roger” all’accensione dei motori di aerei e missili statunitensi, un via libera  che tende anche ad influenzare il rapporto degli esperti dell’Onu atteso per metà settembre. Finora  le prove presentate da statunitensi e francesi non hanno certo ottenuto un ampio riconoscimento e i Paesi favorevoli all’attacco a Damasco non sono riusciti a fornire dati concordanti neppure sul numero di vittime e sul tipo di munizioni a carica chimica utilizzate . Mosca considera tali prove inattendibili mentre crescono testimonianze ed indizi sulla disponibilità di armi chimiche anche tra le milizie di ribelli siriani o per meglio dire tra i jihadisti stranieri pagati e armati dai servizi segreti sauditi, del Qatar e degli Emirati arabi uniti. Dei gas dei ribelli parlò diffusamente in maggio Carla del Ponte, magistrato svizzero che ha collaborato all’inchiesta dell’Onu sulle armi chimiche in Siria, citando casi in cui tali armi sono state utilizzate dai ribelli  senza che nessuno parlasse però di “linee rosse” superate o di intervento militare. Si vede che civili e soldati lealisti gasati dai ribelli valgono meno di civili e ribelli gasati dai lealisti. La Del Ponte venne brutalmente censurata e (guarda caso) non ha più rilasciato interviste ma in giugno il premier britannico David Cameron dichiarò che i ribelli qaedisti in Siria cercavano di dotarsi di armi chimiche. Eppure oggi Cameron si dice certo delle colpe dei lealisti (gli unici a non avere alcun interesse a utilizzare i gas) confermando il dubbio che le leadeship britanniche e francesi non rappresentino più da tempo gli interessi dei loro Paesi ma quelli delle monarchie petrolifere del Golfo e dei relativi fondi d’investimento.

 

 

 

 

 

 

Se neppure il disastroso intervento in Libia del 2011 che ha portato caos e al-Qaeda a due passi dall’Europa ha fatto aprire gli occhi a Londra e Parigi significa che ormai gli interessi nazionali sono stati sacrificati sull’altare degli investimenti provenienti dal Golfo e delle ricche commesse (anche militari) provenienti da quei Paesi. Le due ex potenze coloniali europee sulle quali contiamo per rafforzare “l’Europa della difesa” sono ormai mercenari al soldo delle petro-monarchie della penisola arabica.
Nella dichiarazione di san Pietroburgo i leader dei Paesi firmatari “invitano a una forte risposta internazionale a questa grave violazione delle regole” e lasciano balenare il sostegno a un’opzione militare seppure mai menzionata. Il passaggio chiave  è quello in cui si dichiara che  i “firmatari hanno sempre sostenuto una forte risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU” ma “riconoscono che il Consiglio resta  paralizzato, come lo è stato per due anni e mezzo. Il mondo non può aspettare infiniti processi falliti che possono portare solo maggiore sofferenza in Siria e l’instabilità regionale. Sosteniamo gli sforzi intrapresi dagli Stati Uniti e altri paesi a rafforzare il divieto di uso di armi chimiche”. Chiaro però che si tratta di sforzi che contemplano l’uso della forza, come ha ribadito  Barack Obama  nella conferenza stampa finale del vertice. Il valore politico della firma italiana alla dichiarazione è subito apparso chiaro quando una nota della Casa Bianca ha sottolineato che sono almeno 11 i Paesi che a San Pietroburgo si sono detti favorevoli a una “risposta forte”, Italia inclusa. Secondo i russi invece al summit Cina, India, Indonesia, Argentina, Brasile, Germania, Sud Africa e Italia si sono schierati contro Obama.  La posizione di Roma è apparsa subito ambigua: il governo ha detto no alla guerra ma in realtà la sostiene se a combatterla sono altri. Il fatto che anche i partner  europei e persino la Germania abbiano accettato questa ruolo di subalternità in una crisi alle porte di casa nostra non riduce l’amarezza per l’ennesima occasione perduta di dire non solo “no” ma anche “stop” agli statunitensi.

 

 

 

 

 

 

 

Invece di cercare di impedire a Washington di continuare a destabilizzare un’area energetica indispensabile (per noi, non certo per l’ormai autosufficiente America) gli europei ora rischiano di trovarsi “inchiodati” alla dichiarazione di San Pietroburgo in base alla quale Washington potrà più agevolmente chiedere basi e supporto militare quando e se l’iniziativa bellica condotta con i francesi dovesse protrarsi oltre “l’azione limitata” preannunciata. Il rischio è quindi che si ripeta quanto accaduto due anni or sono in Libia quando l’Italia fu costretta dalle pressioni degli alleati a passare dall’amicizia con Gheddafi auna posizione di non ingerenza fino a dover cedere l’uso delle sue basi indispensabili alla coalition e poi alla Nato e infine a bombardare con i suoi jet la Libia.
“Se siamo seri nel voler sostenere il divieto di uso di armi chimiche, allora una risposta internazionale è richiesta” anche se non arriverà “attraverso il Consiglio di Sicurezza” ha detto Barack Obama evitando di rispondere a domande circa la possibilità di attaccare la Siria anche senza il via libera del Congresso. Anche un eventuale si di Camera e Senato non risolverà però tutti i problemi di Obama. Gli interessi che Washington difende propugnando l’intervento in Siria non sono divulgabili perché è difficile spiegare all’opinione pubblica (secondo tutti i sondaggi contraria ad avventure a Damasco, negli USA come in Europa) che portare il caos in Medio Oriente indebolirà i competitor economici dell’America mettendone a rischio le forniture energetiche così come è difficile spiegare il sostegno ai qaedisti e alle pretese egemoniche regionali delle monarchie petrolifere del Golfo perché contrastano l’Iran e gli interessi russi.

Meglio parlare di “obiettivi limitati” per punire l’uso di armi chimiche. O, come ha detto arrampicandosi sugli specchi Samantha Power, ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, ”l’uso limitato e proporzionale della forza può rinforzare l’azione diplomatica”. Espressioni ridicole, note di linguaggio tipiche delle missioni militari italiche che non possono certo convincere i militari americani che manifestano il loro dissenso. Il generale a riposo Robert Scales, ex comandante dell’Army War College ha detto al Washington Post che la maggioranza dei militari sono “imbarazzati dal venir associati al dilettantismo dell’amministrazione Obama nel tentare di tracciare un piano che abbia senso strategico”. L’attuale strada verso l’intervento “viola ogni principio di guerra, compreso l’elemento sorpresa”, nota l’ex generale, che stigmatizza anche la mancanza “di un obiettivo chiaramente definito e ottenibile”. Valutazioni che, unite alla mancanza di obiettivi strategici chiari e alla consapevolezza che né il regime di Bashar Assad n è i ribelli sono amici degli Stati Uniti, hanno indotto in più occasioni il generale Martin Dempsey, a capo degli Stati maggiori riuniti, a esprimersi con scetticismo nei confronti di un intervento in Siria. Più esplicita la posizione della “base”, o almeno di una parte di militari che sul popolare social news Reddit hanno iniziato a postare autoscatti nei quali, in uniforme, coprono il viso con cartelli molto eloquenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

“Non mi sono arruolato per servire al-Qaeda nella guerra civile siriana” è il messaggio più utilizzato. Certo a questi interventi ne sono seguiti altri che difendono le ragioni dell’attacco a Damasco che secondo alcuni potrebbero essere stati commissionati dagli imbarazzati vertici militari. L’ipotesi poi che tra i bersagli presi di mira dagli statunitensi vi siano anche le basi dei miliziani di al-Qaeda nemiche di Assad e degli Hezbollah libanesi amici del regime siriano la dice lunga sulla messa a punto di questo intervento rafforzando la valutazione che l’unico obiettivo di Washington sia buttare un gigantesco cerino nella polveriera mediorientale. Resta il fatto che il dodicesimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono potrebbe coincidere con la prima “operazione congiunta” condotta da statunitensi e miliziani di al-Qaeda contro il comune nemico Bashar Assad. L’11/9 è anche l’anniversario dell’uccisione dell’ambasciatore in Libia Christopher Stevens, massacrato e oltraggiato nell’attacco al consolato di Bengasi effettuato da miliziani di Qaeda che oggi potrebbero trovarsi a combattere in Siria e trarre profitto dai raids americani. Un’inedita “alleanza” che dovrebbe inquietare non solo i militari americani.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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