I RAID USA RENDONO ANCOR PIU’ IRRILEVANTE IL RUOLO ITALIANO IN LIBIA
I raid aerei statunitensi contro le postazioni dello Stato Islamico a Sirte (operazione Odyssey Lightning) aprono a sviluppi non necessariamente positivi per la crisi libica, la guerra globale contro il Califfato e per l’Italia.
La decina di attacchi effettuati dai cacciabombardieri AV-8B Harrier e dagli elicotteri da attacco AH-1Z Super Cobra dei Marines decollati dalla portaelicotteri da assalto anfibio USS Wasp, non sono certo le prime incursioni aeree statunitensi contro lo Stato Islamico in Libia, già colpito nel febbraio scorso dai cacciabombardieri F-15E decollati dalle basi in Gran Bretagna che distrussero il campo d’addestramento dell’IS a Sabratha, non lontano dal confine tunisino uccidendo un comandante e una quarantina di miliziani oltre a due ostaggi serbi.
La decina di incursioni effettuate da lunedì pomeriggio sono state richieste dal governo di unità nazionale varato dall’Onu e guidato da Fayez al-Sarraj, alle strette con le milizie di Misurata impegnate da due mesi nel tentativo di conquistare la roccaforte dello Stato Islamico e che lamentano l’assenza del governo, del premier e delle altre milizie in una campagna già costata agli attaccanti 500 morti e 2mila feriti.
Nella città che diede i natali a Muammar Gheddafi i “misuratini” sono entrati in azione in giugno ma dopo i primi successi sono rimasti inchiodati senza riuscire a conquistare il centro città dove almeno un migliaio di miliziani del Califfato oppongono con successo una strenua resistenza mentre altri 2 mila almeno si sarebbero dispersi nelle zone desertiche a sud della città e almeno un migliaio sarebbero stati uccisi.
Prima dell’inizio dell’offensiva su Sirte le forze del Califfato in Libia erano stimate tra 6mila e 8 mila combattenti, secondo l’intelligence statunitense, anche se fonti francesi aveva definito sovrastimatequeste valutazioni.
I combattenti del Califfo si sono rivelati in più occasioni superiori ai loro avversari. L’anno scorso respinsero agevolmente il primo raffazzonato tentativo delle forze di Misurata di raggiungere Sirte. L’attuale offensiva, scatenata con il supporto dell’intelligence e delle forze speciali anglo-americane, ha indotto i jihadisti a trincerarsi nel centro della città infliggendo severe perdite ai miliziani di Misurata.
Perdite che secondo alcune indiscrezioni avrebbero scoraggiato a tal punto le milizie filogovernative da indurle a rinunciare alla conquista casa per casa dei quartieri di Sirte ancora in mano allo Stato Islamico.
Guerra leggera
Nel tentativo di sbloccare la situazione a fine giugno le forze governative avevano ricevuto un primo supporto esterno, come lo aveva definito al-Sarraj annunciando che “un Paese ci ha offerto sostegno logistico anche con dei consiglieri militati per l’operazione militare su Sirte” contro lo Stato islamico.
Pur non rivelando il nome del paese in questione era parso chiaro il riferimento alla Gran Bretagna le cui forze speciali (Special Air Service) erano state segnalate a Sirte da Quentin Sommerville, corrispondente della BBC e primo giornalista di una Tv occidentale a entrare in città dall’inizio delle operazioni contro lo Stato Islamico.
Le truppe di Londra avrebbero messo in campo tiratori scelti e droni tattici per individuare gli obiettivi dell’IS in città mentre gli statunitensi avrebbero avuto solo compiti di osservatori e consiglieri.
In giugno il Pentagono aveva ammesso la presenza in Libia di appena due dozzine di Berretti Verdi con compiti di consulenza ma non di combattimento: per metà schierati a Misurata e per metà a Bengasi in appoggio alle forze del generale Khalifa Haftar che risponde al governo laico di Tobruk e, pur in opposizione al governo di Tripoli, combatte le milizie jihadiste di al-Qaeda e dei Fratelli Musulmani tra Derna, Bengasi e Agedabia.
L’aspetto militare più rilevante è quindi l’implicita ammissione dell’incapacità delle milizie di Misurata di sconfiggere lo Stato Islamico.
Con la richiesta di aiuto direttamente agli Stati Uniti al-Sarraj sembra voler rafforzare la su debole leadership anche se non è detto che l’abbraccio con Washington generi buoni frutti per il governo di salvezza nazionale.
I raid aerei americani sono limitati per intensità (4/5 al giorno) e per estensione temporale ai 30 giorni oltre i quali Obama dovrebbe chiedere un improbabile via libera al Congresso ad appena tre mesi dalla fine del suo mandato.
Le incursioni potranno favorire la vittoria a Sirte (oltre ad aiutare la campagna elettorale di Hillary Clinton contro le accuse di Donald Trump all’amministrazione democratica di aver condotto una guerra troppo blanda contro lo Stato Islamico) ma non sono sufficienti numericamente né abbastanza prolungate da risultare risolutive nel conflitto contro lo Stato Islamico in Libia.
Sul piano politico rischiano inoltre di rivelarsi un boomerang per al-Sarraj che gode del sostegno di milizie islamiste, dai Salafiti ai fratelli Musulmani, che potrebbero non gradire l’intervento diretto delle forze di Washington minando così la sua base di consenso.
Forse proprio per questo lunedì il portavoce militare di Tripoli, generale Mohamed al Ghasri, ha detto che “chi è contrario all’intervento Usa sostiene in un modo o nell’altro l’Isis”.
Del resto al-Sarraj aveva sempre negato di voler chiedere aiuti militari esterni facendo saltare l’operazione militare di supporto e addestramento alle truppe governative che avrebbe dovuto avere la guida italiana e la benedizione dell’Onu ma che Tripoli non ha mai chiesto.
Tra i decisi oppositori dei raid a stelle e strisce spicca il Consiglio supremo delle tribù e delle città della Libia che ha preso oggi posizione contro i raid Usa a Sirte contro l’Isis e definendoli un “intervento imperialista”.
Il Consiglio ha “chiesto all’Unione Africana (Ua) e ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu, tra cui Cina e Russia, di assumersi le loro responsabilità e proteggere il popolo libico, stimando che i raid americani saranno sfruttati dal governo di unità di Tripoli per colpire i suoi oppositori”.
A Tobruk, dove siede il governo laico rivale di quello di Tripoli, i raid americani sono già stati condannati dal Aguila Saleh, speaker della Camera dei deputati. “L’intervento straniero in Libia non lo accettiamo.
Le decisioni prese dal governo di unità nazionale libico, che ancora non ha ottenuto la nostra fiducia, sono una violazione della Costituzione e dell’accordo politico” ha detto ieri Saleh.
Il risultato però è che oggi in Libia non vi sono forze internazionali sotto l’egida dell’Onu, come auspicava Roma, ma bensì piccoli contingenti britannici, statunitensi e francesi che perseguono interessi strettamente nazionali e non necessariamente coincidenti.
Proprio al-Sarraj (nella foto sopra), che gode dell’appoggio bellico diretto anglo-americano, aveva duramente criticato la scorsa settimana presenza di 160 militari francesi in Cirenaica, al fianco del rivale Haftar, scatenando nelle piazze di Tripoli quegli islamisti che potrebbero oggi non perdonargli gli stretti rapporti con gli Stati Uniti.
Le basi italiane
Per l’Italia l’intervento statunitense rischia di essere un pessimo affare poiché allarga la conflittualità in Libia senza avere la forza militare per concludere rapidamente la guerra all’IS (lo stesso limite della Coalizione in Iraq e Siria) e perché ripropone il delicato problema dell’uso delle basi statunitensi in Italia.
“Vedremo e valuteremo se ci saranno richieste” per l’utilizzo della base di Sigonella, “se prenderemo delle decisioni informeremo il Parlamento” ha detto ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che ha espresso l’auspicio che i raid aerei statunitensi su Sirte, roccaforte dello Stato Islamico in Libia, siano “risolutivi”.
Invitabile sottolineare la contraddizione dell’auspicio di Roma su raid ai quali rifiuta di partecipare, tenuto conto che per quel tipo di incursioni contro postazioni, veicoli e carri armati dell’IS sarebbero alla portata anche dei 4 cacciabombardieri Amx che l’Italia tiene da mesi in preallarme a Trapani.
Più esplicita la posizione illustrata oggi in Parlamento dal ministro della difesa Roberta Pinotti.
Il governo è “pronto a considerare positivamente un eventuale utilizzo delle basi sul territorio nazionale, se dovesse essere funzionale ad una più rapida ed efficace conclusione delle operazioni in corso” ha detto il ministro sottolineando che “ritiene che il successo della lotta tesa alla eliminazione delle centrali terroristiche dell’Isis in Libia sia di fondamentale importanza per la sicurezza non solo di quel Paese, ma anche dell’Europa e dell’Italia.
In ogni caso l’operazione Usa “non ha finora interessato l’Italia nè logisticamente, nè per il sorvolo del territorio nazionale.
La decisione di Washington di rispondere da sola alla richiesta di intervento militare del premier di Tripoli, Fayez al-Sarraj, senza coinvolgere gli alleati della NATO e della Coalizione che in Siria e Iraq combatte il Califfato, evidenzia la volontà della Casa Bianca di mostrare muscoli e determinazione ma evidenzia anche quanto sia oggi marginale il ruolo dell’Europa e dell’Italia in una Libia sempre di più “terra di conquista” contesa da anglo-americani, francesi, turchi, e Paesi arabi coinvolti nella crisi, dall’Egitto al Qatar dalla Turchia agli Emirati Arabi Uniti che sostengono le diverse fazioni.
Roma ha ribadito che non vi sono unità militari né basi sul territorio nazionale coinvolti nei raid statunitensi confermando di voler limitare il suo intervento all’evacuazione con i cargo C-130J dei miliziani di Misurata rimasti feriti a Sirte che vengono da tempo curati nell’ospedale militare romano del Celio.
Pare infatti che anche i droni impiegati su Sirte siano decollati dalla lontana Giordania e non dalla base siciliana di Sigonella, aeroporto militare impiegato dalle forze aeree della Marina Usa e dai droni il cui utilizzo è stato ridefinito dal recente accordo bilaterale tra Washington e Roma.
Il governo italiano consente infatti agli americani di impiegare sulla Libia i Reaper basati a Sigonella ma solo per missioni di ricognizione e sorveglianza, escludendo quindi attacchi armati e “targeting”, cioè l’identificazione dei bersagli.
Limitazioni che riguardano anche i 60 cacciabombardieri statunitensi basati ad Aviano, sottolineando il principio che ogni utilizzo a fini bellici di basi sulla Penisola devono essere autorizzati, caso per caso, da Roma.
Fonti ben informate sottolineano che il numero ridotto di incursioni effettuate in questi primi due giorni dai velivoli statunitensi sono gestibili con i cacciabombardieri Harrier e gli elicotteri Super Cobra imbarcati sulla portaelicotteri Wasp, mentre un eventuale incremento dei raid o un prolungato impegno bellico americano in Libia renderebbero molto probabili richieste di ampliare la libertà d’azione dei velivoli di Washington quanto meno a Sigonella e forse anche a Pantelleria, isola che per ora ospita nel suo aeroporto in caverna velivoli spia statunitensi che sorvolano la Libia per intercettare le comunicazioni dei jihadisti.
Quale ruolo per Roma?
Difficile ritenere che Roma possa negare a lungo eventuali richieste del genere, specie dopo il manifesto sostegno alle operazioni belliche americane espresso dal governo.
Del resto i rapporti strategici tra Italia e Stati Uniti sono da mesi caratterizzati da un continuo rimpallo tra le richieste americane per un impegno bellico delle forze italiane contro lo Stato Islamico, dall’Iraq (dove i nostri jet e droni volano disarmati con compiti limitati a intelligence e ricognizione) alla Libia, e le pretese di Roma di non farsi coinvolgere in azoni di combattimento.
Una posizione che ha irritato più volte Washington ma che ha di certo contribuito a evitare alla Penisola rappresaglie dei terroristi islamici.
Inutile farsi illusioni a questo proposito: tutti gli attentati effettuati recentemente hanno colpito Stati che hanno un ruolo diretto nelle operazioni in corso in Siria e Iraq e ritenere che l’Italia possa evitarli in caso di impiego bellico delle nostre forze militari è una speranza che potrebbe avere basi ben poco concrete.
A Roma forse valutano anche il rischio che l’intervento americano si riveli un boomerang dipingendo al-Sarraj agli occhi delle milizie e dei partiti islamisti che finora lo hanno sostenuto come una “marionetta” degli americani.
Il rovescio della medaglia
La prudenza italiana potrebbe quindi aiutare a valutare il reale impatto dell’intervento militare americano, anche per evitare di ripetere gli errori compiuti nella guerra condotta da USA e Nato contro Muammar Gheddafi nel 2011.
Anche se l’Italia decidesse di partecipare all’offensiva aerea guidata dagli USA su Sirte il suo ruolo apparirebbe irrimediabilmente quello di gregario, tenuto conto soprattutto che Matteo Renzi ha sempre escluso “avventure militari” in Libia e non offrirebbe forse contropartite bilanciate col rischio di esporre la Penisola a rappresaglie terroristiche.
Di certo il ruolo attivo di Washington nella guerra rende il ruolo di Roma nella sua ex colonia marginale se non del tutto ininfluente o irrilevante.
Una marginalità evidenziata anche dal rifiuto di al-Sarraj di fermare i flussi di migranti illegali e di accettare il loro respingimento sulle coste libiche.
L’Italia ha finora sostenuto al-Sarraj senza incassare alcuna contropartita ed è difficile non fare caso che mentre ha chiesto l’aiuto agli USA per la guerra all’IS, al-Sarraj si è ben guardato dal chiedere alle flotte italiana ed europea di colpire nelle acque territoriali e sulle coste libiche i trafficanti di immigrati clandestini.
D’altra parte la missione navale europea Eunavfor Med valuta che circa la metà del Pil della Tripolitania sia oggi rappresentato dai traffici di esseri umani verso l’Italia che arricchiscono quindi le stesse milizie e tribù che sostengono il governo di al-Sarraj.
Foto: Marina Militare, AP, AFP, Getty Images, US DoD e Stato Islamico
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.