EUROPA: QUALE FUTURO CI ATTENDE?
In che mondo stiamo vivendo e quale futuro ci attende? È la domanda che l’uomo della strada si sta ponendo da tanto tempo ed alla quale non riesce a trovare una tranquillizzante risposta. Circondato com’è da “confusione di idee” non solo politiche ma anche etiche e da “paura” sia del presente sia del futuro, che non riesce né a progettare né ad immaginare.
Non è nemmeno capace di trovare la chiave di lettura a tutte le criticità che lo circondano a partire dalle crisi economiche, passando attraverso la marea delle immigrazioni clandestine, i sanguinosi attentati terroristici e gli enormi massacri delle guerre in atto.
La mancanza di adeguate soluzioni a problemi di tali dimensioni contribuisce non solo ad aumentare lo scetticismo nei confronti dei governi – con conseguente disaffezione ed allontanamento dei cittadini dalla vita politica e crescente sfiducia nella classe istituzionale che si propone di rappresentarli – ma ad incrementare anche la disgregazione delle organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea che per circa 70 anni ci ha consentito di vivere in pace.
La sfiducia nelle istituzioni è un male oscuro che assale i paesi democratici e cerca di farne crollare l’architettura progressista e “paladina” dei principi di libertà, nonché di travolgerne la serena quotidianità e le poche residue certezze nello stato di diritto e nella realizzazione di quell’equità giuridico-economica, in cui i rispettivi cittadini hanno finora creduto.
Da circa un ventennio, una catena di eventi improvvisi e distruttivi, di natura geopolitica e geo-economica, stanno alimentando sentimenti egoistici che inducono ad innalzare barriere ed a disconoscere la solidarietà, spingendo ogni paese a percorrere la propria strada per tutelare esclusivamente i rispettivi ed esclusivi interessi a tutto campo. L’Unione Europea è in crisi profonda, l’Onu non ha poteri.
I valori universali – sia laici che religiosi – ai quali ci siamo finora ancorati per costruire strutture ed ordinamenti sociali a misura d’uomo, sono diventati preda di un dissacrante relativismo che ha distrutto e sta ancora distruggendo milioni di vite innocenti, con aumento della probabilità di condurci ad olocausti nucleari. (È ciò che traspare dalle parole del presidente Vladimir Putin che nel dicembre 2015 – poco dopo il lancio di missili su Raqqa – nel chiedere l’analisi dei risultati si è augurato che quei vettori non debbano mai essere armati con testate nucleari).
Questo male oscuro ha origini ataviche e profonde che risalgono agli albori dell’Impero Romano, allorquando Germani e Pitti – popolazioni autoctone dell’area ad est del Reno ed a nord della Britannia – si opposero con disumana ferocia alla conquista di Roma, rifiutando quel progetto di emancipazione che trasformava barbari nomadi e selvaggi in cittadini, rendendoli partecipi di quella civiltà greco-romana ampiamente diffusa nell’area mediterranea ed imbevuta di principi democratici.
Essere cittadino, ovvero “Civis Romanus”, significava vivere in una città con acquedotti, scuole, mercati, teatri, terme, stadi, ecc., il tutto sottoposto a regole giuridiche, piuttosto che in villaggi fatti di capanne in mezzo a boschi e paludi, dediti a razzie e ruberie, governati solo dalla “legge del più forte”.
I Germani – coacervo di tribù di indole guerriera ed irriducibili ai compromessi, ma avvezzi al bere come li descrisse Tacito – furono inizialmente assoggettati dai Romani che si erano spinti oltre il Reno giungendo fino al fiume Elba. Mentre si apprestavano a pacificare le loro conquiste l’Imperatore Augusto inviò a governare la provincia romana, nell’anno 7 d.C., Publio Quintilio Varo.
L’arroganza e le vessazioni di costui indussero Arminio, capo delle tribù dei Cherusci e ausiliario nell’esercito romano – era cresciuto a Roma, aveva raggiunto una posizione nella classe equestre e conosceva bene le strategie e le tattiche romane – ad organizzare segretamente, con l’inganno ed il tradimento, una rivolta contro l’Impero.
Nel settembre del 9 d.C. Varo, che aveva al suo comando tre delle migliori legioni e numerose truppe alleate, in vista della stagione fredda spostò l’esercito negli apprestamenti invernali ubicati nel cuore della Germania, nonostante il suo apparato informativo lo avesse avvisato dell’imminenza insurrezionale che stava maturando.
Il generale romano non solo non ascoltò il suo apparato intelligence ma spinse la sua imprudenza fino ad addentrarsi in mezzo ai boschi e alle paludi della selva di Teutoburgo (Bassa Sassonia), senza prendere nessuna precauzione, percorrendo una scorciatoia che Arminio stesso gli aveva suggerito.
In quest’area, dove l’esercito romano non poteva organizzarsi né schierarsi per combattere, Arminio aveva preparato un’imboscata ed il 9 settembre i Germani attaccarono di sorpresa le tre legioni romane in mezzo alle selve, su terreno sdrucciolevole, tra vento, scrosci di pioggia e nebbia.
I Romani resistettero disperatamente due giorni, ma al terzo giorno Varo, vedendo impossibile la resistenza, si suicidò assieme ai suoi ufficiali, l’esercito venne ferocemente distrutto e solo alcuni soldati fatti prigionieri, torturati e sacrificati sugli altari pagani.
L’Imperatore Augusto, a Roma negli apprestamenti imperiali, fu colto dalla disperazione e, secondo gli storici, si aggirava confuso nel palazzo gridando: “Varo, rendimi le mie legioni!”
La guerra fu ulteriormente condotta per altri sette anni senza successo ed alla fine i Romani si ritirarono ad ovest del Reno ove l’Impero rimase per i successivi 400 anni.
Se Varo fosse stato più accorto e non fosse stato così imprudente ed incapace, la Germania avrebbe potuto integrarsi con l’Impero e la storia dell’Europa avrebbe potuto essere molto diversa.
Anche i Pitti, miscuglio di tribù di origine celtica, ritenuti imparentati con i Germani in quanto avrebbero occupato la Caledonia (attuale Scozia) provenienti dall’Europa settentrionale, rifiutarono la dominazione dei Romani che additarono come genti aduse a “rubare, massacrare, rapinare le ricchezze altrui ed a conquistare territori che chiamavano, con falso nome, impero dove facevano il deserto e dicevano che era pace”.
Le prime incursioni di Roma in Britannia risalgono al 55 e 54 a.C. ma la sua conquista cominciò nel 43 d.C. sotto l’imperatore Claudio. In seguito alle continue scorrerie dei Pitti – che Tacito chiama Caledoni, popolazioni di tenaci e terribili guerrieri, dediti alla pastorizia, alla caccia ed alla pesca – venne nominato governatore della Britannia Julius Agricola che, dal 69 al 85 d.C., condusse numerose battaglie, tentando anche di invadere e sottomettere l’intera Caledonia ma senza successo.
Nell’83/84 il suo esercito si scontrò con un’enorme orda di Caledoni nella battaglia di Monte Graupio, guidati da uno dei tanti leader denominato Calgaco. Le truppe di Agricola misero in fuga i nemici e la sua opera pacificò la Britannia e ne fortificò i confini.
I suoi successi, invisi a Roma, indussero l’Imperatore Domiziano a richiamarlo in patria ed i Pitti si dimostrarono, ancora una volta, capaci di sfruttare le loro qualità di indomiti guerrieri ricominciando raid e imboscate contro l’esercito romano. Essi resero manifesto come la conoscenza del territorio fosse l’arma vincente quando si trattava di fronteggiare forze soverchianti o meglio armate.
La sopravvenuta situazione di insicurezza indusse, nel 122 d. C., l’Imperatore Adriano a costruire il famoso Vallo perché convinto che le popolazioni della Caledonia non potevano essere soggiogate dall’autorità romana.
L’opera si rese indispensabile in quanto i Pitti, cresciuti ed abituati alle guerre tribali, mettevano in scacco le legioni romane con attacchi di sorpresa e ritirate strategiche, senza affrontarle in campo aperto.
I Romani adusi, peraltro, a ordini e schieramenti rigorosi non si erano ancora scontrati con formazioni di tipo guerrigliero e ritenevano che le ritirate dei barbari fossero fughe di fronte all’imponenza nemica, mentre invece erano prodromi di ulteriori e più feroci attacchi. Infatti, dopo ogni sconfitta i Caledoni erano sempre capaci di riorganizzare le proprie difese e mantenere una pressione costante sul limes romano.
Quando i Romani lasciarono l’Inghilterra nel 410 d.C., i Pitti vivevano ancora nelle regioni a nord del muro e la presenza romana non aveva affatto modificato il loro stile di vita.
Probabilmente, se Domiziano avesse lasciato sul posto Agricola, che ben conosceva i sentimenti della provincia ed era altresì pienamente convinto che a ben poco serviva l’uso delle armi se si lasciavano vivi ingiustizie e rancori, i Caledoni sarebbero stati anch’essi resi partecipi della cultura latina.
Tali atteggiamenti nei confronti di Roma non sono stati né affievoliti, né modificati, né rivisti nel corso dei successivi duemila anni di travagliate vicende ma solo accantonati o dissimulati abilmente nei periodi in cui gli stessi atteggiamenti avrebbero potuto nuocere agli interessi di quelle che sono diventate, nel tempo, le maggiori potenze nord europee. Ovvero da esse artatamente riesumati e sbandierati allorquando sono stati o sono funzionali al perseguimento dei rispettivi disegni strategici.
La memoria politica, purtroppo, è sempre corta ed ha sepolto nel dimenticatoio gli eventi chiave che hanno palesemente documentato la mai sopita avversione di quei popoli nordici verso Roma ed il Mediterraneo. Basta pensare al periodo del Sacro Romano Impero (962-1806) che ancorché veda la simbiosi fra Papato ed Impero, registra altresì:
a. l’abbandono di Roma e del Mediterraneo alla dominazione ed alle scorrerie saracene interrotte solo dagli interessi delle Repubbliche Marinare e dello Stato Pontificio con la battaglia di Lepanto (1571);
b. la scissione della chiesa luterana da quella cattolica (1517) la cui dottrina riformista trasudava lo spirito tedesco ribelle a Roma;
c. l’elaborazione tra il 1700 e 1800, nel nord Europa, del concetto di determinismo climatico con sviluppo di teorie riguardanti il rapporto tra clima e uomo, attestanti una netta contrapposizione tra popoli germanici e popoli latini. Ciò poneva in contrapposizione l’uomo del nord a quello del sud ed esaltava il mondo mitologico, sognante e nostalgico dell’Europa settentrionale e della Germania, come prototipo di società libera. Da qui si giunse alla glorificazione della “vittoria germanica” di Teutoburgo, magnificando la figura di Hermann, cioè Arminio, come eroe nazionale tedesco, dedicando allo stesso un monumento nel 1875 – posto a Detmold – nella selva di Teutoburgo (regione westfalica);
d. la ricerca della purezza linguistica e culturale degli antenati germanici e dell’identità nazionale all’interno dei simboli e degli avvenimenti del passato che hanno infine condotto all’esaltazione della razza ariana, celebrata da Hitler con l’olocausto di intere generazioni.
La Gran Bretagna non è stata da meno, a partire da:
a. scisma anglicano che, con l’”Atto di Supremazia”, Enrico VIII – succube di Anna Bolena e delle teorie luterane – impose ai cattolici inglesi;
b. imprese coloniali (1600 – 1945) che proiettarono gli Inglesi:
1. oltre l’Atlantico ove crearono le 13 colonie americane (1607 -1783) e strapparono il Canada alla colonizzazione francese (1763);
2. verso le Indie, il Medio Oriente e l’Africa ove tramite la Compagnia delle Indie Orientali (1600 – 1874), creò vasti possedimenti coloniali, molti dei quali confluiti nel Commonwealth nel 1924.
Sembra che ce ne sia a sufficienza, ma per giungere alla situazione attuale – peraltro esposta in modo “political correct” dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi dopo il vertice UE di Bratislava (16 settembre 2016) – occorre fare qualche passo indietro e risalire all’aprile 1949. In sintesi, alla fine della seconda guerra mondiale, mentre era in corso la costituzione della NATO, l’allora il Presidente americano Harry Truman convocò un vertice riservato con gli alleati europei per esporre e condividere con essi la strategia di lungo periodo dell’alleanza atlantica.
L’esposizione, secondo il punto di vista americano, si basava sul presupposto di una comune linea d’azione e una comune sensibilità con gli alleati europei che, in pratica, non furono molto facili da ottenere.
Nella circostanza, vennero in sintesi delineate le seguenti linee strategiche:
a. la minaccia più importante e preoccupante per gli USA era quella dell’URSS che con il tracciato dei confini di Jalta aveva inglobato tutti i Paesi dell’est Europa e parte della Germania, con una Jugoslavia attestata sulle teorie marxiste – leniniste e si apprestava ad estendere i suoi teoremi politici a livello planetario;
b. il pericolo rosso poteva essere neutralizzato con le armi, ma pensare ad uno sforzo di potenziamento bellico dei paesi Nato appena usciti dalla seconda guerra mondiale era improponibile, costosissimo e rischioso. La proposta alternativa USA fu quella di neutralizzare la minaccia con una politica alternativa a quella militare, mediante:
• iniziative finalizzate a rimuovere nei paesi diversi dall’URSS le cause dei contrasti economici e sociali sfruttati dal comunismo per fare proseliti e prosperare, ricorrendo altresì a contromisure attive per minare la potenza sovietica;
• stanziamenti di risorse per incrementare il benessere economico e sociale all’interno dei paesi Nato, da considerare vere e proprie armi per contrastare la penetrazione del comunismo;
• Germania e Giappone considerati dalla strategia USA centri di grande potenza, all’epoca neutralizzati – ma destinati a risorgere – che la strategia sovietica intendeva condurre nella sua orbita di influenza. L’URSS era già all’opera nell’Europa orientale con l’idea che una Germania rinata e alleata dei sovietici, avrebbe reso quasi imbattibile l’orso siberiano.
Gli USA erano ben consci dei pericoli conseguenti alla rinascita tedesca, ma occorreva rischiare, portando a qualsiasi costo la Germania nell’orbita occidentale. Il disegno strategico poteva essere realizzato mediante un governo democratico tedesco – vincolato da opportuni freni e bilanciamenti – nonché la rimozione del dissenso politico alla ricostruzione economica e politica della Germania da inserire gradualmente in un blocco europeo occidentale.
Punto di partenza di questa nuova politica strategica doveva essere la realizzazione di un “comando congiunto”, limitato agli Stati Uniti, al Regno Unito, alla Francia e magari allargato all’Italia, che controllasse la pianificazione strategica per ottenere, in prospettiva – con una serie di passi calibrati e concreti – una vera e propria unificazione militare, economica e politica dell’Europa occidentale.
Pur se questo disegno comportava enormi ostacoli derivanti dalle eterogeneità di tradizioni, culture, economie nazionali ed altro, era tuttavia l’unica alternativa possibile ad una difesa europea – che allora era solo concepita a parole e abbozzata solo sulla carta – dall’invasione sovietica.
Occorreva, in sintesi, che nell’Europa occidentale si formasse una nuova concezione di unione di Stati, un nuovo progetto politico che riuscisse a ridare vigore a spiriti cinici e prostrati dalla guerra, ritenuti l’unico antidoto contro il “canto delle sirene” del comunismo internazionale.
A questa esposizione – pressoché appannaggio del Segretario di Stato americano – poche furono le osservazioni degli altri membri, ma quelle che vennero espresse furono ben determinate e rispecchiavano integralmente gli interessi dei rispettivi paesi, tuttora validi e cogenti. In particolare:
a. il rappresentante inglese sottolineò che l’U.K. non si considerava una nazione continentale in quanto doveva badare al Commonwealth, associazione che si estendeva a livello mondiale. Di conseguenza l’atteggiamento inglese verso il continente europeo era quello di non accollarsi fardelli che comportavano un groviglio di impegni, fintanto che non avessero avuto un lungo periodo di gestazione;
b. Il rappresentante francese, nel chiedere ironicamente a quello inglese se intendesse attendere fino a quando i comunisti non avessero “stabilizzato” l’Europa occidentale, soggiunse che gli assiomi politici enunciati presupponevano una Germania democratizzata e orientata verso l’Occidente. Ma la Francia, che aveva subito tre invasioni in settant’anni, nutriva grossi dubbi sul successo dell’operazione. La soluzione ideale francese, che poteva essere condivisa anche dai Russi i quali avevano sperimentato l’invasione tedesca, era la neutralizzazione perpetua della Germania, perseguita in un contesto di controllo continuo della sicurezza, mantenendola decentralizzata e debole;
c. l’unica presa di posizione favorevole al progetto fu quella del rappresentante belga il quale si dichiarò molto favorevole all’integrazione tedesca in un’Europa occidentale federale.
I capisaldi di questa esposizione tracciano chiaramente il disegno politico-strategico che un Presidente americano democratico intendeva percorrere per garantire soprattutto la sicurezza agli Americani ed a quegli Europei che gli fossero stati alleati senza riserve.
Tutti gli step enunciati sono stati percorsi, con alterne vicende e con poco successo dal 1949 ad oggi: sia per l’alternanza di governi americani che non condividevano tali obiettivi sia per vari traumatici eventi accaduti a livello internazionale che hanno modificato di volta in volta gli obiettivi proposti, fino a stravolgerli.
Tuttavia la maggiore preoccupazione statunitense è ancora costituita dalle mire espansionistiche della Russia sia ad est che ad ovest, da contrastare con tutti i mezzi.
Ora la Comunità Europea – la quale si é frantumata su molti obiettivi comuni non raggiunti che la Brexit ha ulteriormente reso critici – si trova ad un bivio.
Si dovrà decidere se il sogno di un’Europa federale, proposto dagli USA e pienamente condiviso ed accettato solo da alcuni paesi europei, debba sopravvivere o essere completamente cancellato dalle coscienze degli ingenui utopisti.
Se vogliamo difendere una speranza di unione, di solidarietà e di pace dobbiamo continuare ad insistere affinché le nostre proposte trovino adeguata considerazione dal duo Merkel – Hollande che sembra voler ripercorrere progetti già naufragati di un’Europa a due velocità, con due monete di diverso peso (Neuro o euro del nord e Seuro o euro del sud), o monopolizzare e dirigere a loro esclusivo vantaggio progetti di difesa comune (vds. Analisidifesa.it del 3-10-2016: “Difesa europea: l’egemonia franco-tedesca emargina l’Italia”).
Se invece riteniamo di trovarci ormai in un’arena in cui ognuno intende riappropriarsi della propria sovranità e garantire gli interessi dei rispettivi popoli, magari a scapito di altri imponendo scelte traumatiche, allora dobbiamo proseguire da soli, dimostrando di saper comunque risolvere i nostri problemi – alternativa peraltro proposta dal Presidente del Consiglio – rivedendo la nostra politica estera affinché abbia come baricentro l’area mediterranea (vds. Analisidifesa.it n. 159 del dicembre 2014: “Centralità geopolitica del Mediterraneo”), ricercando il supporto del maggiore alleato atlantico (gli USA) e la cooperazione di Spagna e Francia, per rafforzare i parametri fondamentali della nostra sicurezza e tutelare i nostri interessi strategici, offrendo un coerente progetto di stabilizzazione regionale mediante:
a. il ripristino di antichi circuiti culturali ed economici, che non siano ostili alle preoccupazioni di sicurezza israeliane, per reintrodurre nell’area mediterranea la nostra influenza, fare opera di mediazione culturale nelle diverse aree conflittuali e cercare di soppiantare la crescente influenza turca nell’area che, attratta dalle lusinghe di Putin e dal mito califfale wahhabita, sta percorrendo una deriva schizofrenica pensando di uscire dell’orbita occidentale;
b. la modernizzazione della sponda sud del Mediterraneo, valorizzandone i processi evolutivi in atto e la crescita economica, con investimenti nell’area in modo da arginare su quelle sponde il massiccio flusso migratorio che investe come primo impatto l’Italia e poi tenta di riversarsi negli altri paesi europei;
c. la pacificazione dell’area libica la cui instabilità qualcuno vuole “made in Italy” (vds Analisidifesa.it del 3-10-2016: “La Libia l’avete creata voi ed ora tocca a voi intervenire”), dimostrando, alla stregua di tanti politici, di avere la memoria corta per aver dimenticato il frettoloso intervento di Francia ed Inghilterra, supportato dagli USA, contro Gheddafi e le loro successive manovre, tuttora in atto, per dividere quel paese ed accaparrarsene le risorse petrolifere. Peraltro, secondo alcuni osservatori geopolitici, l’operazione militare del 2011 contro Gheddafi avrebbe avuto come scopo – “a lungo termine” – quello di stabilire l’egemonia anglo-statunitense nel Nord Africa, regione storicamente caratterizzata dall’influenza di Francia e in misura minore, da Italia e Spagna”.
Sarebbe stato meglio, per gli strateghi americani, attuare un energico e credibile processo di mediazione avvalendosi soprattutto degli apparati d’Intelligence italiani che per affinità culturali e sentimenti umanitari, sono in grado di effettuare efficaci penetrazioni, magari anche attraverso le ONG.
L’impiego del nostro paese come portavoce anche di istanze atlantiche, anemizzate da imposizioni interpretabili come esportazione di principi culturali e politici, avrebbe ridato credibilità politica non solo ad un paese da sempre fedele all’Alleanza Atlantica, ma anche a tutta la UE ed alla Nato.
Il lancio delle bombe ha solo inasprito gli animi: come sosteneva Agricola l’uso delle armi serve a ben poco se si lasciano vivi ingiustizie e rancori. I bombardamenti non solo hanno creato situazioni di rilevante criticità, riversatisi esclusivamente sull’Italia, ma hanno aperto la strada alle influenze turca e qatarina che al momento non hanno interessi strategici convergenti né con l’Europa né con l’America. (vds. anche Analisidifesa.it del 29-01-2015: “Crisi libica: quali prospettive?)”.
Queste sono solo fantasticherie che l’uomo della strada auspica possano trovare una qualche attenzione ed essere meglio tradotte in durevoli e concreti progetti politici affinché l’Italia finisca di essere la ruota di scorta o il paravento per la realizzazione degli interessi di vari alleati ed amici – specie quelli del nord Europa – e diventi un ponte capace di unire le due sponde del Mediterraneo, mare in cui è auspicabile che non vengano più seppelliti quotidianamente migliaia di profughi senza speranza.
Foto: Marina Militare Italiana, Homolaicus.com, web, AFP, GEtty Images, EPA, Cremlino, Aeronautica Militare Italiana e Stato Islamico
Luciano Piacentini, Claudio MasciVedi tutti gli articoli
Luciano Piacentini: Incursore, già comandante del 9. Battaglione d'Assalto "Col Moschin" e Capo di Stato Maggiore della Brigata "Folgore", ha operato negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico. --- Claudio Masci: Ufficiale dei Carabinieri già comandante di una compagnia territoriale impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali dove ha concluso la sua carriera militare.