Rieducare i terroristi: il metodo saudita
Adnkronos/Aki/Washington Post – Ci sono programmi di arte e sport, oltre che di teologia e psicologia, nel programma messo a punto dalle autorità saudite per cercare di riablitare i terroristi di al-Qaeda. Un progetto finanziato da Riad in un edificio alla periferia della capitale che cerca di ricanalizzare la rabbia di coloro che hanno imbracciato le armi contro quella che vedevano come un’ingiustizia ai danni dei musulmani sunniti. A partecipare al programma di riablitazione, avviato nel 2007 e della durata di tre mesi, sono stati circa 2.400 islamici rientrati in Arabia Saudita dalle guerre combattute in Iraq e in Afghanistan, e che in patria avevano rivolto la loro ideologia estremista contro la famiglia al-Saud e le riserve petrolifere che costituiscono la ricchezza del Paese. Secondo dati ufficiali, solo l’1,5 % di loro ha ripreso attività militante dopo il programma di riabilitazione. Il tasso più alto di recidiva è tra coloro che sono stati detenuti a Guantanamo. Le autorità saudite temono ora una nuova ondata di estremisti dalla Siria, dove è in crescita il ruolo dei gruppi islamici nella guerra contro il regime di Bashar al-Assad.
Per questo, il ministero degli Interni saudita ha aperto un secondo centro di riabilitazione per i terroristi a Gedda e ha in programma di avviarne altri tre. ”Siamo molto preoccupati dalla situazione in Siria”, ammette Hameed al-Shaygi, direttore del dipartimento di Studi sociali presso l’Università Re Saud di Riad e consulente del programma di riabilitazione. ”Alcuni saranno motivati ad andare a combattere”, aggiunge. ”Non devi essere un simpatizzante di al-Qaeda per pensare che i sunniti in Siria abbiano diritto a una resistenza violenta contro il regime di (Bashar, ndr) al-Assad e che gli altri sunniti li debbano aiutare”, afferma Gregory Gause, professore di scienze politiche all’Università di Vermont a Burlington. Le autorità saudite stanno comunque cercando di evitare la partenza di combattenti volontari per la Siria. A ottobre il Gran Mufti aveva esortato i giovani a non partecipare alla guerra e molti imam sono stati licenziati per aver invocato al jihad. E’ anche vero, però, che i sauditi sostengono i ribelli, anche con armi. Si tratta di una ”contraddizione” tra una certa politica e i riflessi domestici che potrebbe avere, nota Eckart Woertz, esperto in Golfo Persico presso il Centro di Affari internazionali di Barcellona.
Secondo Gause, i governanti sauditi hanno ”obiettivi di politica estera immediati che vanno oltre i rischi domestici di lungo termine”. Rischi che Riad conosce da quando, negli anni Novanta, i jihadisti sauditi rientrati dall’Afghanistan furono arrestati, ma quando uscirono di prigione mantennero la loro ideologia estremista. ”La campagna di al-Qaeda dal 2003 al 2006 è stato un chiaro esempio del contraccolpo dell’addestramento dei sauditi nei campi in Afghanistan”, afferma Thomas Hegghammer, direttore del dipartimento di ricerca sul terrorismo presso il centro di Difesa norvegese a Oslo. ”Quell’esperienza è tornata alla mente dei sauditi” quando sono stati coinvolti nella guerra siriana. Per i sauditi arrestati in relazione alla guerra siriana, il percorso nei centri di riabilitazione segue quello in carcere. Secondo fonti occidentali, il numero dei miliziani sauditi in Siria si attesta sulle 800-900 unità, ma non è chiaro quanti siano stati arrestati. Al termine del percorso di riabilitazione, che dura al massimo tre mesi, è previsto che continui un’assistenza di tipo psicologico e che vengano favorite opportunità di lavoro, anche nelle università.
Foto: globalpost
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