I costi del ritiro da Herat
Mentre a Herat il contingente italiano è guidato dal 18 febbraio dalla Brigata Sassari al comando del generale Manlio Scopigno, sulla grande base di Camp Arena, all’aeroporto della città afghana, 11 chilometri di mezzi e container attendono di rientrare in Italia. Lo sforzo logistico imbastito negli ultimi mesi ha già permesso il rimpatrio di 3 mila metri lineari di merci in vista della prossima rapida riduzione delle forze italiane che scenderanno dai 2 mila effettivi di oggi a non più di 800/900, necessari a dar vita all’Operazione Resolute Support con cui la NATO intende continuare ad appoggiare per almeno tre anni con istruttori e consiglieri militari le forze di Kabul. La Sassari è quindi la penultima brigata a costituire il contingente nazionale della missione di ISAF che verrà chiusa ad Herat dalla brigata Garibaldi a fine anno lasciando spazio al nuovo contingente dell’operazione Resolute Support a cui hanno aderito, oltre agli Stati Uniti (che metteranno il grosso dei 10/12 mila militari previsti) anche Germania e Italia che manterranno le basi occupare attualmente a Mazar-i-Sharif ed Herat schierandovi contingenti inferiori ai mille militari.
Il costo annuo per la nuova missione italiana che dovrebbe prolungarsi fino al 2017 è stimato in 250/300 milioni di euro annui mentre l’attuale missione raggiunse nel 2011, anno di massima espansione del contingente a Herat, il picco di spesa di 811 milioni. Le operazioni di rimpatrio dei mezzi devono però fare i conti con l’assoluta incertezza che regna intorno a “Resolute Support”, operazione che non potrà prendere il via finché Kabul non sottoscriverà l’accordo di cooperazione sulla sicurezza con Washington. Accordo bilaterale che il presidente afghano Hamid Karzai rifiuta da mesi di firmare rimandando l’onere al suo successore che verrà eletto nella tarda primavera. L’ipotesi di applicare la cosiddetta “opzione zero”, cioè il ritiro totale delle forze alleate dall’Afghanistan, potrebbe risultare soddisfacente anche per la Casa Bianca quanto meno in termini di consenso popolare. Per la prima volta dal 2001 un sondaggio effettuato a inizio anno dalla Gallup registra che sono di più gli americani che pensano che la guerra in Afghanistan sia stato un errore di quelli che invece la considerano un’azione positiva. Il 49% degli intervistati ritiene infatti che George W. Bush commise un errore attaccando l’Afghanistan poche settimane dopo gli attentati dell’11 settembre, mentre il 48% continua a considerarla una scelta giusta. Lo scarto, seppur minimo, indica un’importante inversione di tendenza che completa il lungo processo che si è registrato in questi 13 anni di erosione del sostegno alla guerra che all’inizio era granitico. Il primo sondaggio, realizzato nel novembre 2001, registrava meno del 10% di contrari all’attacco.
L’incertezza sulla futura presenza militare internazionale in Afghanistan rende Impossibile per ora stabilire se Roma dovrà evacuare completamente l’Afghanistan o se dovranno invece restare mezzi ed equipaggiamenti (inclusi elicotteri e velivoli teleguidati) per la futura missione. Un’incertezza che non aiuta la pianificazione logistica gestita dal Comando Operativo di Vertice interforze (COI). Se il personale viene rimpatriato con l’impiego di velivoli passeggeri civili noleggiati dalla compagnia aerea Meridiana, più complesso e costoso risulta il ritiro di mezzi, materiali ed equipaggiamenti. Da quando è iniziato il progressivo ridimensionamento del contingente i reparti logistici a Herat e la Task Force Air nella base istituita negli Emirati Arabi Uniti all’aeroporto di al-Batin e nel porto di Jebel Alì lavorano a pieno ritmo per far rientrare migliaia di tonnellate di materiali.L’Operazione di rimpatrio denominata “Itaca 2” si presenta come una delle più complesse della storia militare italiana dopo il 1945, certo più complicata dell’Operazione Itaca che nel secondo semestre del 2006 vide il ritiro del contingente dall’Iraq. In quell’occasione materiali per 11 mila metri lineari vennero trasportati via terra, con l’ausilio di convogli di mezzi civili, da Nassiryah fino al porto di Kuwait City lungo l’ampia autostrada che attraversa il sud dell’Iraq. Le rotte di uscita dall’Afghanistan sono invece prettamente aeree anche perché l’ipotesi di attraversare i confini pakistani per raggiungere il porto di Karachi è resa impraticabile dalla presenza talebana nelle zone di frontiera.
Container e veicoli militari italiani vengono quindi imbarcati sui grandi aerei cargo Ilyushin 76 e Antonov 124 noleggiati da compagnie russe e ucraine affiancati per i trasporti meno impegnativi dai cargo dell’Aeronautica Militare C-130 e C-27J che raggiungono gli aeroporti di al-Batin e al Maktoum (vicino ad Abu Dhabi) dove i materiali vengono sbarcati e stoccati nel porto di Jebel Alì attesa di essere imbarcati su due navi italiane che in media ogni mese e mezzo giungono a caricare. La Difesa prevede saranno necessari una decina di viaggi per riportare a casa tutti gli equipaggiamenti presenti in Afghanistan. Il criterio adottato è delicato perché deve coniugare l’esigenza di rimpatriare i materiali con la necessità di lasciare a Herat quanto necessario a far operare al meglio le forze ancora presenti garantendo mobilità e sicurezza al contingente. L’impiego degli aerei cargo fino al Golfo Persico e da lì delle navi civili noleggiate comporta costi elevati stimati dallo Stato Maggiore Difesa in circa 100 milioni di euro che potrebbero aumentare di circa il 20 per cento in caso di annullamento dell’operazione “Resolute Support” e venisse attuata la cosiddetta opzione zero che prevede il ritiro di tutte le forze alleate (e quindi anche italiane) dall’Afghanistan entro dicembre.
Una sensibile riduzione dei costi si potrebbe ottenere utilizzando la cosiddetta “rotta nord”, portando quindi i materiali da rimpatriare in Kazakhstan con gli aerei per poi farli arrivare in Italia via treno attraverso Russia, Ucraina, Ungheria e Slovenia. La “rotta nord” al momento non è attiva nonostante gli accordi stipulati da Roma con i governi di Uzbekistan e Kazakhstan che prevedeva anche l’uso gratuito della grande base aerea kazaka di Shymkent. L’intesa siglata un anno or sono dal Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola è al momento “congelata” a causa degli strascichi nei rapporti tra Roma e Astana determinati dal caso Shalabayeva. La progressiva ricomposizione della frattura tra i due Paesi potrebbe consentire di aprire questa rotta per il deflusso dei materiali militari meno sensibili attraverso il più economico trasporto ferroviario (poco più di 10 mila dollari a container contro gli oltre 30 mila richiesti per il trasporto aereo) anche se armi, munizioni, equipaggiamenti elettronici e materiali coperti da segretezza continueranno a raggiungere l’Italia direttamente in aereo o via nave dagli emirati. Resta poi da valutare l’impatto che la crisi ucraina avrà sugli accordi tra i Paesi della Nato con Russia e repubbliche asiatiche ex sovietiche per i transiti di truppe e mezzi in uscita dall’Afghanistan.
(con fonte Il Sole 24 Ore)
Foto: Isaf
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.